Si conoscono da tanto tempo e si stimano, anche se vengono uno dalle manifestazioni di piazza e l’altra dal conservatorio, passando però entrambi dalle cantine romane e da esperienze professionali disparate. L’inedito sodalizio tra due forti personalità, Paolo Pietrangeli e Rita Marcotulli, la migliore canzone d’autore e le brillanti atmosfere jazz, l’incontro tra due intriganti artisti che hanno scritto e suonato dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. E forse avevano voglia di misurarsi insieme con l’abituale curiosità e ritmiche nuove. Le parole di Paolo e gli arrangiamenti di Rita si fondono in libere composizioni, in immagini poetiche, in un flusso di assonanze e iperboli che seduce, con grazia ed eleganza, gli ascoltatori.

«Io mi sono divertito a realizzare Paolo e Rita, questa opera insolita, liriche e melodie create da me, interpretate dal pianoforte jazz di Rita. L’abbiamo fatto come si facevano i dischi una volta, chiusi in tre nello studio di registrazione (l’altro è Pasquale Minieri, direttore artistico complessivo, un altro caporione del Folkstudio e della musica indipendente, dai Carnascialia al Canzoniere del Lazio, ndr), abbiamo suonato come si fa dal vivo, fin quando le canzoni non sono venute bene e ci sono piaciute». Nel breve showcase di presentazione in libreria, al basso elettrico c’è Daniele Mencarelli, alla batteria Alessandro Paternesi mentre Pietrangeli imbraccia la chitarra e s’aiuta col leggio per i testi, tra ironia e smarrimento, giri armonici e sghembe percussioni.

«A caccia di sirene con la fionda una sirena bionda esce dall’onda/ la fionda mi si impiglia in uno scoglio io nel costume voglio il portafoglio» . Una dozzina di canzoni -tutte scritte da Pietrangeli tranne una, Canzoni da amare, di Alessio Lega, uno dei più bravi delle nuove generazioni cantautorati- in questo disco su etichetta Alabianca. «Le parole sono fantastiche, si portano appresso delle note -continua Pietrangeli – così fare canzoni sembra usare parole senza senso all’inizio poi lavorandoci pian piano il malloppo intricato si scioglie come una matassa e acquista la cadenza giusta».

Ci si ritrova ad ascoltare queste elaborate miniature, come gli assoli di Polvere (con la citazione di Contessa e un finalino honky tonky), un racconto onomatopeicamente sonoro, ricco di effetti strani, come Zio Alberto, l’amarezza straniante di Pulci, l’incontro sentimentale di C’è differenza, la fantasticheria immaginifica di Bestiario, il tema struggente dei migranti in Addio Padre. «Qualche mese fa il Club Tenco mi ha chiesto di intervenire a un festival di canzoni erotiche. Ho detto, guardate, io non c’entro niente. Mi hanno sparato subito una decina di titoli e ho dovuto ammettere che avevano ragione anche se sono sepolti tra il migliaio di canzoni che ho scritto – racconta ancora l’autore di Contessa e Valle Giulia ma pure di Pietralata’96 e Io ti voglio bene – Questo è un disco emotivamente positivo, prima era tutto più semplice, ti portava un’onda, raccontavi sentimenti collettivi , ora ti trovi a esaltare piccoli momenti, a fare i conti con la voglia di stravolgere tutto, ad essere curioso delle facce, delle persone e delle storie».

Forse la sinistra si è smarrita però c’è ancora una ruvida passione tra le strofe, condita di ironia e memoria, col potere di alzare qualche velo sul presente, un velo che s’agita su queste raffinate costruzioni «da camera», inventate dalla sua complice, pianista e compositrice di virtuosismo estremo.