La palazzina d’epoca è in un barrio di Buenos Aires in cui sconfinano i quartieri di Constitucion, Barracas e Parque Patricios. Dalla porta dipinta di rosa si sale al primo piano nello studio disordinatamente creativo, dove Marcos López (Santa Fe, Argentina 1958) si è trasferito nel 2000. Inciampare in una scarpa décolleté verde lime (stessa tonalità di una parete delle scale) parcheggiata sul parquet fa parte dell’esperienza, mentre lo sguardo abbraccia oggetti imprevedibili che traducono l’ansia di un’era globalizzata. Ci sono anche un paio di bottiglie di un vino rosso buonissimo (a detta dell’artista) le cui etichette sono opera sua. Del resto il cibo, nella cultura pop, è un ingrediente gustosissimo. Molte opere di López sono incentrate proprio su questo tema, a partire da una delle sue immagini più note Asado en Mendiolaza-Córdoba (2001) della serie Sub-realismo creollo. Una versione tipicamente argentina dell’Ultima Cena, in cui l’iconografia cristiana è rispettata per quanto riguarda la composizione (piano parallelo, simmetria con personaggio centrale), ma l’aspetto mistico di divisione e condivisione lascia il posto alla pantagruelica celebrazione dell’amicizia attraverso l’estasi del vino e il piacere della carne: tantissima carne alla brace. Nelle sue opere che siano fotografie, sculture, installazioni e documentari (Ramón Ayala, 2013), le citazioni sono dirompenti, provengono da mondi incommensurabilmente distanti all’insegna dell’esagerazione emozionale (è lui stesso a parlare di «desbode emocional» nella raccolta di scritti Verdad/Consecuencia, pubblicata da Interzona nel 2017) nell’esorcizzazione di un compulsivo horror vacui. Opere iconiche come Gaucho Gil e La reina del trigo, Gálvez, Santa Fe fanno parte della collettiva Photography in Argentina: 1850-2010. Contradiction and continuity (a cura di Judy Keller, Idurre Alonso e Rodrigo Alonso), organizzata dal J. Paul Getty Museum alla Fundación Proa di Buenos Aires (marzo/maggio 2018).

9vis1fotinaDSC_0119 -  - Marcos López, Buenos Aires (ph Manuela De Leonardis)(ph Manuela De Leonardis)

L’installazione con la ciambella salvagente a forma di papera che lei ha messo su uno dei leoni marini di pietra per il 32° Festival Internacional de Cine de Mar del Plata, nel novembre scorso, ha generato molta polemica…

Sembra che la gente più tradizionale di Mar del Plata fosse molto arrabbiata. Sono stato insultato, perché è stata presa come una mancanza di rispetto. Il gesto intuitivo, infantile e con una certa ironia di mettere la ciambella al leone marino mi ha portato a una riflessione sulla violenza, il risentimento e la rabbia della gente in un paese dove, anziché confrontarsi con i tanti problemi reali, c’è chi vive come un problema di stato il fatto che un artista abbia messo per una settimana il salvagente a una statua!

Proprio perché i leoni marini sono il simbolo della città di Mar del Plata, c’era una volontà di provocazione? 

Quasi sempre questa volontà è presente, è un tratto distintivo della mia personalità. Ma ogni volta sento come un senso di colpa cattolico-cristiano – fa parte della mia formazione – che mi porta sempre a stare un passo avanti rispetto alla provocazione. Ma il mio gesto è quasi infantile, innocente.

La fotografia è il medium che ha scelto nel 1978 mentre studiavi ingegneria all’Universidad Tecnológica Nacional.. 

Ho studiato fotografia da autodidatta, frequentando i club amatoriali. Quella della dittatura militare argentina era un’epoca complicata. Anche le mie prime foto avevano un’intenzionale messa in scena, come una specie di surrealismo ingenuo con certe metafore visuali, ma hanno sempre avuto anche una vocazione documentaria. Ho sempre detestato l’idea dell’hobby legato alla fotografia amatoriale.  A diciassette, diciotto anni ero già attraversato da un’assoluta necessità a livello comunicativo ed espressivo. La mia forma di composizione è stata intuitiva, già a quell’età la sentivo naturalmente. La fotografia è incorporata nel mio essere, ma ho la necessità allo stesso tempo di esplorare altre discipline, ecco perché ora questa relazione si sta espandendo in altri settori, come la collaborazione con il drammaturgo Rafael Spregelburd. Sto lavorando anche sulla performance e da poco mi sto dedicando all’insegnamento del processo della creazione. Quanto all’ingegneria, l’ho studiata per cinque anni. Mio padre era ingegnere e io avevo la tendenza a seguire la tradizione familiare.

Tra i suoi lavori ci sono serie famosissime come «Pop Latino» e «Sub-realismo creollo»

Il sub-realismo creollo è la miscela dei conquistador spagnoli con i nativi, di cui io stesso sono un prodotto. Mi sono inventato questa «sottospecie di realismo» che può essere intesa come un’altra forma di realismo, o un surrealismo francese copiato male. L’Argentina è un paese di emigranti che provano a sembrare un po’ europei, ma sono come una copia mal fatta. In questo errore sta anche l’identità.

Quando ha deciso di mettere da parte il bianco e nero, dando sfogo a colori molto saturi?

Negli anni ’90 scattavo con l’Hasselblad, poi con il passaggio al digitale era arrivato un momento in cui mi ero stancato delle foto a luce naturale. Era anche l’epoca politica di Menem. Ho sentito la necessità di rompere con la tradizione della fotografia latinoamericana di Álvarez Bravo e di grandi fotografi contemporanei come Salgado. Così ho inventato la tecnica di scattare fotografie dai colori molto saturi con l’uso di materiali economici di plastica, importati dalla Cina, lavorando con l’idea della pubblicità come Andy Warhol, che è sempre stato un’ispirazione. Però era come una brutta copia di Warhol. Un’altra caratteristica è la teatralità. Costruire una scena come uno spettacolo con tanti personaggi per raccontare una storia intorno al tessuto sociale di un paese di creoli, meticci, emigranti. Mi interessava estendere la riflessione sociopolitica sull’Argentina all’America latina, paese in cui ho viaggiato molto. Nel 1989 ho studiato cinema alla Escuela Internacional de Cine y Televisión (Eictv) di San Antonio de los Baños a Cuba, fondata da Gabriel García Marquez, e tutta la mia opera si nutre sinceramente di un sentimento latinoamericano molto forte. Mi interessa la mescolanza di razze, la sua forza ma parlo anche del suo risentimento: oppressione, emarginazione, colonizzazione.

Ha citato Marquez, qual è stata la sua lezione?

Ho lavorato con lui molto da vicino. Da lui ho imparato prima di tutto la libertà di inventare una realtà parallela e avere fiducia nel delirio. La sua lezione è stata importante, così ho acquistato fiducia in me stesso. La scuola di cinema in sé è stata importante, perché mi ha dato una grande apertura verso altri artisti latinoamericani. Un cineasta che mi piace citare è il brasiliano del Sertão Glauber Roca e i movimenti brasiliani come il tropicalismo.

Un altro elemento presente è l’horror vacui…

Ho la necessità di comporre aggregando, aggregando, aggregando. È come un costante horror vacui. Mi interessa il neo barocco latino-americano con la sonorità spagnola, l’esagerazione; lo stile architettonico di Cuzco, l’estetica «churrigueresca» (dall’architetto spagnolo José Benito de Churriguera, ndr), a cui unisco la psichedelia dell’ayahuasca, che è una droga dell’Amazzonia. In tutto il mio lavoro non c’è uno spazio libero. Mi interessa l’eccesso. Credo sia un atto di ribellione e di incorporare l’idea tipica dell’America Latina dell’esagerazione, della corruzione, povertà, ricchezze naturali, disuguaglianza sociale. Un territorio esagerato senza limiti né etici, né morali.

C’è una foto – «Plaza de Mayo» (1996) – in cui una donna vestita con i colori della bandiera argentina sorride mostrando paletta e detergente. Il fatto che alle sue spalle ci sia la Casa Rosada non è certo casuale…

L’ironia mi viene naturalmente. È una foto che ho realizzato nel ’96, prima che fosse inventata la tecnica del photoshop. Sembra una pubblicità in cui una donna delle pulizie sta vendendo un prodotto per la casa. È un’immagine emblematica che si può interpretare in diversi modi. Mi piace usare la metafora ovvia, c’è come una teatralità caricaturale nell’idea di patria, nazione, identità. È anche un teatro dell’assurdo.