Oltre a rassicurare sull’identità degli artisti, le firme dei dipinti antichi rivelano, nei casi più fortunati, dati diversi. Non si parla solo del «quando». Al di là delle date di creazione dell’opera che a essi eventualmente si accompagnano, le sigle e i nomi scelti dagli autori nascondono spesso informazioni preziose, che illuminano i vari «dove» e «perché» della Storia dell’arte. A scorrere le primissime firme della produzione pittorica di Marco Zoppo (1432/1433-’78), sembra che il maestro, nativo di Cento ma presto itinerante fra i maggiori centri padani del Quattrocento, abbia voluto restituire le tappe di un percorso.
Il frutto più antico della sua arte, la Virgo lactans del Louvre, «OPERA DEL ZOPPO DI SQUARCIO/NE» del 1455, certifica l’avvenuta adozione del giovane artista da parte di Francesco Squarcione, pittore modesto, terribile impresario, ma abile catalizzatore di ben più fervide menti figurative, nella Padova (già) di Filippo Lippi e Donatello, e (soprattutto) di Nicolò Pizolo e Andrea Mantegna. E dimostra, quella Madonna, la fervida sensibilità espressiva di Zoppo, anche solo nel ritrarre la tenera ritrosia degli angioletti affondati dalle ombre, nella nicchia alle spalle del gruppo sacro. Al proprio maestro, che lo aveva adottato per carpirgli mano d’opera e trovati tecnici, Marco non aveva troppo di che ispirarsi. Gli doveva, tuttavia, la possibilità d’aver incrociato personalità somme dell’epoca, attorno a quella bottega affollata dai più vari modelli grafici e scultorei (antichi e moderni). Anche a distanza di anni dalla rottura con Squarcione, e dopo diversi cambi di dimora, per Zoppo rimasero infatti Donatello e Mantegna gli esempi cui guardare liberamente. Così intorno al 1459, quando, con gli occhi irresistibilmente attratti dall’arte radiosa di Piero della Francesca, siglò il polittico per San Clemente al Collegio di Spagna «OPERA DEL ZOPPO DA BOLOGN/IA», suggellando con fierezza il suo rientro in terra felsinea. Così ancora dodici anni più tardi, quando a Venezia, nel pieno del moto di resistenza al genio straripante di Giovanni Bellini, parve quasi descrivere la traiettoria del suo ultimo viaggio nel cartiglio dell’ancona per la chiesa pesarese di San Giovanni Battista, con l’iscrizione «MARCO ZOPPO DA BOLO/GNIA PINSIT MCCCCLXXI / IN VINEXIA».
Per viaggiare lungo le strade percorse dal pittore disponiamo ora del libro di Giacomo Alberto Calogero Marco Zoppo ingegno sottile Pittura e Umanesimo tra Padova, Venezia e Bologna (Bononia University Press, pp. 456, 274 ill., € 40.00). In otto densissimi capitoli, dal notevole accumulo erudito, Calogero fa corrispondere a ogni segmento dell’itinerario zoppesco uno o più incontri del maestro coi protagonisti della coeva scena culturale padana; e di volta in volta germinare, da quegli incontri, una spiegazione figurativa saldamente ancorata alle opere.
Prima di questo studio, potevamo solo sospettare, in compagnia di storici del calibro di Rodolfo Pallucchini e Carlo Volpe, che Marco avesse soggiornato a Venezia dopo il divorzio con Squarcione e prima del documentato rientro a Bologna. O dovevamo sforzarci di credere, per quella parentesi lagunare, alle difficoltose proposte attributive avanzate cinquantacinque anni fa da Eberhard Ruhmer nella sua pur coraggiosa monografia sull’artista per Neri Pozza. Oggi, invece, accogliamo volentieri l’invito a rileggere un passo del Libro architettonico di Antonio Averlino detto il Filarete, nel quale l’autore, durante una colazione veneziana «a casa d’uno dipintore bolognese», sarebbe stato sul punto di soccombere a uno degli antichi tranelli naturalistici di Zeusi e Parrasio. Ritroviamo quindi tracce di un’amicizia, come quella fra l’architetto-scultore-teorico fiorentino e il pittore di Cento, trasfigurata da Filarete nel celebre aneddoto pliniano della Naturalis historia e da Zoppo nel verso della cosiddetta Pergamena Colville. Non sarà forse un caso se questo meraviglioso disegno double face, ora finalmente datato intorno al 1458, nello stesso frangente in cui Averlino si trovava a Venezia, riflette un’acuminata visione architettonica, solo in parte (e quasi umoristicamente) debitrice dei tellurici ribaltamenti mantegneschi nella cappella Ovetari agli Eremitani di Padova.
Lo sforzo di restituire ogni opera a un coerente e complessivo quadro di spiegazione storica attraversa tutto lo studio di Calogero. Raggiunge i risultati più alti nelle pagine appunto dedicate alla grafica zoppesca, dai ventisei fogli dell’album Rosebery al British Museum sino alle illustrazioni del Virgilio alla Bibliothèque Nationale de France. Non interessano, questi affondi, solo per l’incredibile messe di nomi dell’Umanesimo artistico e letterario italiano che sono capaci di far risuonare; né solo per la fiammeggiante varietas di temi iconografici prescelti. È ancor più notevole che tornino a galla, in nome dell’occhio eternamente rievocante di Zoppo, gli argomenti figurativi della formazione del pittore. Allora egli aveva temprato sì quella «sutilità de inzigno» più tardi cantata dall’amico Felice Feliciano, ma anche coltivato la certezza, grazie alla mai disorientante diversità funzionale dei modelli a sua disposizione, dell’inconsistenza d’ogni scarto di statuto e dignità fra tecniche e tipologie figurative. Marco non dovette nutrire alcun dubbio sulla qualità del disegno come forma d’arte autonoma; né poterono fare diversamente i suoi committenti, raffinati estimatori di quei favolosi mondi in pergamena creati fra memoria dell’Antico e suoi rovesciamenti moderni. Una convinzione, questa, che finisce per accompagnare anche il lettore nello sfogliare il paratesto, dove si assottigliano le distanze fra i dipinti di Mantegna, le placchette d’invenzione donatelliana e un foglio da Zoppo dedicato al soggetto della pittura devozionale par excellence: la Madonna con il Bambino. E dove la ginnastica dello sguardo si allarga a confronti davvero inediti, come quello fra i profili all’antica delineati nell’album londinese e quelli scolpiti, in terra toscana, da Desiderio da Settignano e Andrea del Verrocchio; o l’altro, che chiama in causa il recto di una placchetta circolare di Giovanni Boldù e riguarda un raro Trionfo di Cupido.
In anni in cui presunti cataloghi ragionati di pittori grandissimi del nostro Quattrocento escludono i disegni, la vicenda così raccontata di Marco Zoppo appare a noi almeno come un invito a leggere le immagini, al di là degli steccati metodologici, nella loro stupefacente concretezza, e a riportare la ricostruzione prosopografica dell’artista sul piano di un cosciente sprofondamento nella realtà materiale e percettiva del suo tempo.