Nell’epoca in cui il «no future» non è più uno slogan di utopisti travestiti da apocalittici come erano i punx dei primi anni ’80 bensì la realtà, il nuovo romanzo di Marco Philopat I Pirati dei Navigli (Bompiani, pp. 313 euro 17) ci traghetta dagli anni ’80 ai ’90 attraverso un miscuglio di vita personale, collettiva e sociale. Asor Rosa in Scrittori e massa sostiene che «la Storia è una risorsa formidabile, ma impone rigide regole all’invenzione. Se si parla del passato, significa che del presente non si può parlare come si vorrebbe» e continua «per andare incontro al futuro si dovrebbe chiarire meglio se la Storia è una scelta o un obbligo insuperabile, e in ambedue i casi perché». Philopat dribla la domanda raccontando in prima persona un mondo parallelo, inventato e vissuto – assieme a Kix, Valvola, Gigione, Gomma, UVSLI, nomi buffi che sembrano tratti da una storia a fumetti.

ROMANZO, RACCONTO o storia? I Pirati dei Navigli è un bel caos che con linguaggio fresco e avvincente narra scintille creative come il Virus; Decoder, rivista cyberpunk che diede una scossa innovativa all’underground; l’Helter Skelter, spazio non-omologato interno a un Leoncavallo ancora zavorrato negli anni ’70; Primo Moroni e la libreria Calusca; il Cox18. Ma è anche un libro di avventure e umorismo: come nel surreale capitolo Il sogno di Roby, nello struggente La saracinesca SADO MASO non c’è più, nell’esilarante Un’altra porta da aprire. Quando si parla di certificare la propria posizione nel mondo della normalità, il protagonista sostiene: «Mi chiamo Philopat, sono scappato di casa a sedici anni e sono cresciuto lontano da mio padre e dal suo cognome. Al solo pensiero di tirare fuori la carta d’identità mi prende un moto interiore di rifiuto, e non solo perché gli sbirri me l’hanno chiesta troppe volte». Con questo presupposto attraversa gli strani anni ’80, periodo di passaggio tra la morte dei movimenti e la flebile speranza di un rilancio che arriverà più tardi – prima con il movimento studentesco della Pantera e delle posse, dopo con il movimento altermondialista; e decennio di transizione dalla produzione fordista al postfordismo del lavoro autonomo, con la mutazione dei modelli di sfruttamento e controllo. La bussola per orientarsi nella trasformazione è il sapere collettivo che nasce da letture, viaggi in Europa, per imbastire collegamenti e cospirazioni planetarie che contrastino il capitalismo transnazionale, e da azioni politiche antagoniste (l’occupazione di spazi sociali e le mobilitazioni antinuke post-Cernobyl). Il tutto sotto l’occhio attento di Primo Moroni, che in quegli anni, con Balestrini, pubblicava L’Orda d’Oro.

IN UNA RIVOLTA che si vuole politica, etica ed estetica la musica è parte integrante e non solo colonna sonora. Crass, Poison Girls, Raf Punk, CCCP (topica la contestazione del gruppo «filosovietico» al Leoncavallo), Joy Division, Sonic Youth, Wretched, Psichic TV, fino ad arrivare a Public Enemy e Beastie Boys, passando dagli Ottoni a Scoppio e le canzoni della mala milanese di Pelè con il suo bidofono.
«Io spero ancora e sempre in una trasformazione. Non saranno i sistemi proposti in ricambio a produrla, e la rivoluzione – quella allo stesso tempo sociale e antiautoritaria – è pensabile solo partendo da quella trasformazione», scriveva Paul Celan, rispondendo a un’inchiesta a proposito della rivoluzione. Trasformare la biografia in opera letteraria non è da tutti e Philopat ci consegna dei passaggi notevoli in cui si mette a nudo, da punk, tagliuzzandosi non la pelle ma l’anima, per mettere in discussione se stesso e tutte le cose assieme, in uno sconvolgimento intimo e straniante, per sovvertire tutte le leggi. Anche quelle della narrativa di ispirazione storica.

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Oggi alle 19.00, a Milano, alla Libreria Gogol&Company la prima presentazione con l’autore, Bruna Miorelli e Max Guareschi.