Vent’anni dalla morte di Maurizio Grande, da un lato. Dall’altro, il restauro di Break Up, a opera della Cineteca di Bologna, premiato a Venezia 73.
C’era una profonda affinità tra lo spirito di Marco Ferreri e quello d’un critico come Grande, scomparso troppo presto, che gli prestò sempre grande attenzione. Ora gli scritti da lui dedicati a Ferreri sono stati meritoriamente raccolti da Alessandro Canadè nel volume «Marco Ferreri», edito da Bulzoni (Roma, 2016).
Presenza eccentrica, per non dire straordinaria, nel cinema italiano, Marco Fereri preferiva quasi essere etichettato come tardo neorealista (sia pure «comico» e, beninteso, non-rosa), piuttosto che come campione dell’hunour noir o del grottesco, come se temesse, quando lo si presentava in questo secondo modo, che si mettesse in dubbio il suo sincero coinvolgimento nei dolori e nelle angosce del consorzio umano.
Eppure il grottesco, come mette giustamente in evidenza Roberto De Gaetano nella sua prefazione, resta un elemento fondamentale nella poetica di Ferreri, legata, in questo senso, alla feconda ibridazione con la cultura spagnola (leggi: rapporto con Rafael Azcona). Ci sono però diversi tipi di grottesco: c’è quello di Fellini, quello alla Petri o alla Dino Risi. L’importante è non confonderlo con la commedia all’italiana – e subito Maurizio Grande, che della commedia all’italiana fu attento studioso e scriverà anche di Billy Wilder e Jean Vigo (nonché di Carmelo Bene), si trova a dover denunciare la miseria d’una critica alla perenne ricerca di etichette da affibbiare.
Tutto si assimila, anzi, si digerisce. Si finge di capire l’umorismo nero dei primi film girati in Spagna, si assegna al regista, poi, il ruolo di fustigatore dei costumi, di osservatore disincantato delle ossessioni e delle nuove manie del costume sociale – molto più difficilmente assimilabile è il suo strazio per la fine dell’umano: inerzia dell’umano, la chiama De Gaetano, con esemplare understatement. A me capitò di utilizzare il concetto di estenuazione narrativa. Come si manifestano tale inerzia, tale estenuazione?
Pensiamo ai film più «freddi» di Ferreri, a Dillinger è morto, per esempio, o a Diario d’un vizio. Che significa «freddi», in questo caso? Non c’è progressione narrativa, non c’è un vero e proprio sviluppo, i comportamenti risultano immotivati o automatici, manca qualunque accensione o accentuazione drammatica. Inerzia o estenuazione significa allora rivelazione dell’insignificanza dell’agire umano, delle azioni che compiamo, dei sentimenti che si provano o si crede di provare – inutile cercare senso nel non-senso: al massimo, il cinema può evidenziare le più impensate pulsioni auto-distruttive (vedi La grande bouffe).
Il Castoro di Grande su Ferreri uscì nel 1974 (aggiornato nel 1980), ma sul regista milanese Grande è tornato spesso, anche nei suoi scritti di taglio più teorico, come se esistesse, tra loro, una particolare affinità emotiva, confermata, del resto, dal lungo colloquio tra i due, avvenuto nel 1980 (in esito a Chiedo asilo) e riportato in appendice da Alessandro Canadè, che ha curato la raccolta con attenzione e pazienza. Nella postfazione, Canadè ricorda opportunamente la distinzione di Grande tra narrazione (affare di montaggio) e racconto (basato sugli elementi dell’inquadratura). Da un film all’altro, Ferreri «narra» sempre meno, e aumenta l’importanza di ciò che è mostrato nell’inquadratura – di ciò che è mostrato, come di ciò che è escluso. Il cinema di Ferreri somiglia sempre più a una «macchina celibe»: le cose che mostra perdono senso, o meglio, mostra la perdita di senso delle cose.
I personaggi, allora, cadono preda della disperazione? Assolutamente no. Nell’insignificanza del loro vivere, non c’è posto per un sentimento forte come la disperazione. Ci si potrà anche suicidare, ma in modo grottesco, mangiando, ingozzandosi, vomitando, defecando, fino a morire. Oppure, come Mastroianni in Break Up, lanciandosi da una finestra alla sola presenza d’un cane, che ne approfitta per addentare un prosciutto. Perfino il film sul Banchetto di Platone, è intriso di spunti corporali, e la teoria dell’Amore come amore del Bello, prospettata a Socrate da Diotima, si colora di utopia. Socrate invoca chiarimenti, chiama Diotima, la cerca a tentoni, alla cieca, ma deve contentarsi di ascoltarne le parole, senza trovarla. È utopia, come la nave di Dillinger è morto, in viaggio verso un immaginario regno del Sole.
Tutto perde senso, comprese le illusioni filosofiche. Si potrebbe dire che solo il cinema, il fare cinema, conserva un po’ di senso fino all’ultimo (diceva Ferreri: se non facessi cinema, non vivrei) – ma nel film Nitrato d’argento, che Ferreri girò poco prima di morire, si constata anche il crollo dell’illusione cinematografica. Non solo sta morendo il cinema (un certo tipo di cinema), ma stanno morendo i cinema, le sale cinematografiche, quelle stupende, lussuose,fastose costruzioni che una bambina, nel film, scambia per Chiese, per Cattedrali… Le «case di Dio» ormai sono vuote, crollano in rovina.
E non c’è niente da fare. Se la gente non viene a Rossellini, è inutile che il cineclub Béla Bartok cerchi di portare Rossellini alla gente, proiettandole in faccia, mentre siede al ristorante, per la strada, il primo piano della Bergman in Stromboli. Gli spettatori/mangiatori non sembrano disposti a lasciarsi impressionare da un vecchio film. Il nuovo pubblico è forse proprio quello che Ferreri ci mostra un paio di volte, quasi di sfuggita, in inquadrature impressionanti, fatto di manichini, automi immobili, che la fascinazione filmica non riuscirà più a catturare, salvo forse a colpi di sempre più mirabolanti effetti speciali.
La fine del vizio del cinema, arrivato a una trasformazione che somiglia a una morte, scopre, con un ultimo ghigno, il volto pietrificato dello spettatore-senza-qualità.