Never whistle alone. Letteralmente: non fischiare mai da solo, da sola. Ma nel documentario di Marco Ferrari, il cui titolo italiano è La bufera, si pone sotto lente d’ingrandimento quel fenomeno che secondo l’inglese globale è noto come whistle blowing, ossia l’azione di chi lancia un primo suono di allarme alla comunità, segnalando avvenuti illeciti e abusi di potere, scoperti e/o subiti in prima persona.  

Altro nucleo centrale del film (alla scorsa edizione del Trieste Film Festival in tour e online fino al 18 aprile, grazie a MYmovies, nella rassegna di documentari A tutto schermo), è la corruzione, immane questione rimossa nel nostro Paese: in Italia solo il danno in termini economici ammonta a 100 miliardi l’anno. 

Di contro, e a proposito del “non denunciare da soli”, dati Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione),  relativi al 2018  – e citati in calce al film, concluso nel 2019 – attestano 783 casi di denunce in un anno. 

Da questo preziosissimo bacino di azioni individuali capaci di incidere sul tessuto collettivo, Ferrari ha dato voce a sette storie, ciascuna con le proprie peculiarità eppure – considerate le somiglianze tra le differenti fasi della vicenda e i vissuti – narrate come un unico racconto che si rivolge a chi guarda: sia lo stesso regista che colloquia in voice over con i suoi protagonisti, siano gli spettatori. Perché l’essenziale è innescare il processo di immedesimazione…

Così, cursore del pc sempre lampeggiante e titoli dei capitoli in giallo su fondo nero, con la nota squisita del trattino basso in fondo («nella catalogazione di un file un trattino basso o alto cambia tutto»), si srotola il tracciato doloroso e inestimabile di Raphael Rossi, Margherita Corrado, Alessandro Ruffilli, Vito Sabato, Claudia Giacchetti, Giambattista Sciré, Sergio Arcuri. Che hanno denunciato rispettivamente illeciti nella gestione dei rifiuti urbani, abusi edilizi, corruzione e appalti truccati in comune, concorsi truccati per dirigenti statali o all’università, appalti truccati in regione.

«… E se un giorno scoprissi che il tuo capo è corrotto?», recita l’incipit. 

Allora il film muove dal tentativo di corruzione («loro pagano tutto l’arco costituzionale»), ai sensi di colpa ricorrenti nelle vittime, alla denuncia, alle indagini di verifica, alle intercettazioni coi microfoni tra i fiori al ristorante, all’obbligo del segreto, alle aggressioni di estranei in ufficio … Poi – una volta accertati i fatti – non il supporto ma il silenzio e l’ostilità dei colleghi, le omissioni dei media, il mobbing dei capi,  fino al trasferimento coatto e nullafacente, fino all’essere trasformatiti in accusati,  alla costante paura di essere seguiti, agli esiti  medici psicofisici di tutto questo… E fino al contrattacco – prima del baratro della prescrizione – al cercare supporto sui social e al ricevere finalmente il pieno sostegno della comunità, tra i presìdi attorno al fuoco e i messaggi magnifici di chi rivela di aver vissuto la stessa esperienza. E fino al processo in cui vorrebbero tramutare il/la whistle blower in istigatore/istigatrice di corruzione …alle prime sentenze, alle prime condanne. 

Quindi: se Ti trovi tra mezzibusti in giacca e cravatta senza volto, tra porte blindate che – al passaggio del badge – si chiudono alle tue spalle su interni alienanti d’uffici (potente l’impronta autoriale del film, che fa percepire tutta l’opacità e  la blindatura del sistema), non denunciare mai da sola, da solo. Perché sono tante e rivoluzionarie le domande e le strategie con cui una comunità può unirsi, essendo consapevole di tutto questo, come dice commuovendosi Margherita Corrado, oggi senatrice. E come ci racconta Marco Ferrari, qui a colloquio. 

Cominciamo dalla genesi di questo progetto così propulsivo.
La prima idea è arrivata nel 2016: davo una mano all’associazione The good lobby  – allora si chiamava Riparte il futuro – e tra le cause che porta avanti c’è quella del whistle blowing. Io il termine lo conoscevo nella sua traduzione letterale e nella sua accezione del «fare denuncia», ma non sapevo nulla del suo dietro le quinte, della complessità del fenomeno che aveva grande risonanza in America e in altre parti d’Europa, ma che in Italia è per lo più rimosso. È stata una conversazione informale con un whistle blower ad accendermi la lampadina. 

Già da allora c’era un focus sulla tematica della corruzione?
No, è arrivato successivamente. La prima idea era di indagare una singola storia esemplare. Ma analizzando le prime vicende, mi sono accorto che, malgrado le peculiarità di ognuna, avevano tutte una sorta di copione che si riproponeva e che le odissee post denuncia erano molto simili; è qui che entra in gioco la questione della corruzione, uno dei fil rouge che le accomunava. Cosa che ci fa capire quanto sia radicata. Così siamo giunti al progetto di un racconto corale, un territorio poco esplorato dal documentario. 

L’argomento della denuncia della corruzione subita in azienda privata o presso la pubblica amministrazione era qualcosa di prossimo alla tua esperienza o di persone a te vicine?
No, però mentre lavoravamo al film è nata la mia prima figlia e forse inconsciamente ho percepito la spinta a fare un lavoro che riflettesse sulla nostra capacità di agire collettivamente. Sentivo che dovevo muovermi per lei. 

Con quante storie in totale vi siete relazionati, rispetto alle sette del film?
Ho parlato con una ventina di whistle blower e sulla carta abbiamo analizzato una cinquantina di casi. Sono tutte persone fortemente provate da quanto è accaduto e quindi è stato arduo convincerle a partecipare. Nel percorso abbiamo perso elementi, e il cast negli anni si è andato trasformando, cosa che ha comportato nuove riscritture. 

Comprendo la difficoltà nell’accettare, e al tempo stesso vedo la partecipazione al film come una chance liberatoria…
Sicuramente in tutti – anche in chi alla fine ha deciso di non prendere parte al progetto – c’è stato un grande senso civico. La volontà di comunicare la propria vicenda, non nel senso narcisistico del termine, ma con l’intento di renderla pubblica e di far comprendere il valore profondo insito nel gesto della denuncia. Oltretutto, se il documentario finale è di 70 minuti, ogni intervista è stata molto corposa e stressante perché nessuno/a di loro è abituato/a a parlare per ore davanti a una telecamera. Quanto alla dimensione catartica, è qualcosa a cui abbiamo cercato di lavorare tramite il linguaggio filmico. Facendo una sorta di pre-interviste, ci siamo accorti che tutti erano trasportati dal pathos della vicenda personale. Allora abbiamo chiesto loro di provare a prendere le distanze dal sostrato emotivo e di concentrarsi sul racconto dei fatti, in maniera più oggettiva. Nello stesso tempo, l’utilizzo del “tu” nella narrazione, voleva aprire a un tono confidenziale, come se si stesse parlando a un amico. 

Instaurare con i protagonisti un rapporto fondato sulla fiducia: essenziale nel documentario e qui in particolar modo.
Come dicevo, le interviste del film non sono a caldo. Prima c’è stata una serie di telefonate e di incontri al fine di innescare una fiducia reciproca. Dico così perché credo che non solo il documentarista debba conquistarsi la stima della persona che racconta, ma che anche la storia raccontata debba essere concreta, solida. E alla fine noi abbiamo scelto tutte vicende molto avanzate – giunte almeno al primo grado di giudizio – se non già concluse. Da parte mia, considerata la solitudine e le vicissitudini che queste persone hanno dovuto vivere, ho cercato di avvicinarle con la massima umanità, la massima capacità di ascolto, la massima onestà. 

Parte della materia del film sono fogli di verbali o articoli di giornali con vistose cancellature in nero, che mi hanno fatto pensare alle opere di Emilio Isgrò. Quali erano i nodi più spinosi da gestire e i permessi da ottenere?
Quello che avevamo chiaro fin dall’inizio era che non volevamo fare un film d’accusa rispetto a certe persone, o società, o amministrazioni. Puntavamo a un ritratto di un fenomeno e da lì nascono le cancellature e le omissioni relative alla controparte. Quanto alle liberatorie, dove serviva, le abbiamo ottenute e abbiamo coinvolto anche la Guardia di Finanza che è partner del film come supporto scientifico. 

Deflagrante è non solo l’azione sempre più prevaricante e violenta dei corrotti, ma la connivenza di buona parte del contesto. Un aspetto cruciale anche per quanto riguarda la violenza di genere.
A questo siamo arrivati nel tempo. Il sottotesto del documentario è la cultura lavorativa perversa che oggi permea la nostra società. Denunciare non è consuetudine eppure queste storture le ritroviamo sia nei confronti delle donne – come dicevi tu – sia in varie forme di discriminazione, sul lavoro e non. Da questo punto di vista, in ambito legale, stiamo facendo passi avanti – anche se lentamente. Ma il vero scarto non può essere calato dall’alto e si ha quando muta la coscienza collettiva. Mentre col film indagavamo il whistle blowing, c’è stata proprio l’esplosione del #MeToo, cominciata con singoli casi che hanno aperto la breccia finché poi si è innescato l’effetto valanga, che ha mostrato come quello che si era scoperchiato fosse un problema immane. 

Giungiamo allo stile, sorprendente, colmo di tensione hitchcockiana, denso di dettagli, di fuori fuoco, di piani americani senza testa. Avevi in mente riferimenti particolari?
Con il direttore della fotografia sapevamo che non stavamo realizzando un film di accusa, così i volti sono saltati. Ci siamo concentrati sui dettagli, come quando si fa una testimonianza in tribunale e si compone un puzzle di particolari che ci restituiscono il quadro completo.  Il nostro è stato un lavoro di re-enactment  perché malgrado i documenti cartacei siano pubblici, non ci sono riprese di repertorio a disposizione e dunque avevamo necessità di rimettere in scena. In tutto questo non avevo riferimenti precisi, anche se sono legato al cinema documentaristico di Errol Morris (in cui vengono proposte ricostruzioni, ndr). 

Penso alla vicenda di Chelsea Manning, nel suo caso all’azione su macro-dinamiche, e a come si differenzi da quella in contesti locali. Ti chiedo di riflettere su partecipazione politica corporea in presenza e partecipazione per via digitale.
Mettere un like o condividere un post sono gesti che costano veramente poco e fanno sentire bene, perché danno l’illusione di aver fatto la propria parte. Tante volte invece queste azioni restano ininfluenti, altre traggono grande forza dal diffondersi via social. Probabilmente ci vogliono entrambe le componenti utilizzate nel modo più consapevole e intelligente possibile. 

La forza de «La bufera» è anche nell’indicare uscite dalla solitudine di chi denuncia. Perfetto dunque da vedere a scuola.
Oggi è più facile essere informati. Ma anche disinformati… Essenziale nell’azione del/della whistle blower è la sua ricaduta diretta sulla comunità. Tutti i casi che abbiamo trattato toccano ognuno/a di noi in prima persona e come tale fanno scaturire una cittadinanza attiva anche nei più piccoli gesti, come partecipare a un sit-in e supportare una persona che ha denunciato. Per questo sì, stiamo pensando a visioni nelle scuole. Una volta acquisito, il meccanismo è trasversale e potentissimo.