Marco Colonna è un clarinettista, sassofonista e compositore romano. Parliamo di un artista talentuoso e passionale, con una visione nitida, con le orecchie aperte, la mente accesa ed il cuore spalancato al mondo.

Credi come Charlie Parker che sentendo tutti i suoni del mondo insieme diventeremmo pazzi?

Il suono del mondo è uno per me, e la mia idea di suono è di qualcosa che ci faccia appartenere noi al mondo. I vari linguaggi sono modi di interpretare il mondo ed in ognuno di questi c’è una faccia nuova che ci si disvela. Mi interessante dunque approcciarmi a tutte le possibilità che mi sono date, e quindi la musica classica, la contemporanea, il folklore, non tralasciando il jazz e la grande innovazione che ha portato anche a livello di coscienza. Voglio affrontare e comprendere questo mondo nel miglior modo possibile, per veicolare senso nel modo più ampio possibile. La musica è un oceano molto vasto,tutto si tiene, dai Bach, ai Rage Against the Machine.

Il tuo ultimo disco solista si intitola «Guernica in fondo al mare». Come mai?

Quando Picasso dipinse Guernica gli chiesero come avesse fatto a dipingere quell’abominio, e lui semplicemente rispose che lui aveva solo ritratto lo scempio che altri avevano perpetrato. Guernica finisce in fondo al mare perché il più grande abominio che stiamo vivendo nel Mediterraneo è la morte dei migranti, più di 20 mila morti in dieci anni, si propaganda l’idea che queste persone se la stanno cercando. Il disco parla proprio di questo. Tra questi morti quante possibilità, quanta bellezza c’era ed è andata perduta? Queste persone muoiono portando nel mare una serie di aneliti, capacità , speranze, tradizioni, storie personali, culturali, familiari, e noi perdiamo tutto questo. Al di là del fastidio che la politica ha per queste morti, credo sia una perdita che come comunità umana non ci possiamo permettere. L’idea è di mettere due riferimenti artistici di eccellenza, due persone capaci di sintetizzare in un discorso d’avanguardia riferimenti universali: cosa sarebbe successo se fossero morti in mare, che cosa avremmo perso?

La musica ha dunque un valore politico per te?

Credo fermamente nel valore politico della musica . Andare in giro, conoscere, incontrare, fa sì che il valore dell’altro sia fondamentale. Senza questo decade il senso del mio lavoro, è questo il motore che lo spinge quotidianamente. Devo poter raccontare una storia. In ogni scuola di jazz ti insegnano che quando fai un assolo devi raccontare una storia: dipende se ce l’hai , una storia da dire. Senza quella degli altri, la tua non esiste. L’improvvisazione è una grande metafora dell’ascolto, del rispetto, della reazione, della crescita, della capacità di risolvere un problema insieme: sono tutte cose che in questo contesto vengono messi in scena come elemento performativo.

Come vedi la scena jazz italiana non allineata e quali sono i tuoi progetti futuri?

Ci sono etichette come Setola di Maiale, che fungono da contenitore di una scena che , contro ogni tipo di svantaggio economico, è indefessa. Ci sono davvero centinaia di bravi musicisti. Io registrerei qualsiasi cosa, anche col telefonino, credo molto nell’idea della musica al di là del mezzo con cui viene registrata: se si fosse stati sempre pignoli a proposito della qualità audio ad esempio avremmo perso parecchio materiale di Steve Lacy, o dello stesso Parker. Ho da poco pubblicato Scaleno, in trio con Dario Miranda e Fabrizio Spera, oltre a Medea con Christian Lombardi e a Stika, in duo con Danilo Gallo. Nell’immediato futuro mi aspettano registrazioni con l’ensemble Asplenium Vespertinum di Roberto Ottaviano, il disco del trio Agrakal con Agusti Fernandez e Zlatko Kaucic.