Tutto comincia nell’aprile del 1977, quando un gruppo di ragazzi e ragazze poco più che ventenni esce dalla scuola, dopo una lezione di linguistica: camminano piano, intorno il traffico della sera a Buenos Aires, due si abbracciano. Uno di loro si chiama Marco Bechis, è italiano, studia per diventare maestro e insegnare nelle comunità indios al confine tra l’Argentina e il Brasile. Sarà un attimo; gli uomini arrivano, lo afferrano, lo portano via mentre uno degli amici trascina lontano la sua ragazza, Dayin. Da lì per lui tutto cambia: una corsa in macchina, occhi bendati, destinazione il Club Atletico, una delle prigioni clandestine nel cuore della capitale in cui i militari del regime di Videla rinchiudevano i militanti politici, gli oppositori, gli intellettuali, gli studenti. Sparivano, migliaia e migliaia di desaparecidos gettati in mare coi voli della morte, uccisi, torturati con la picana – l’elettricità – per strappare denunce di compagni, o anche di chi non c’entrava nulla, le ragazze stuprate, i bambini sottratti alle famiglie. La solitudine del sovversivo (Guanda) dipana nelle sue pagine il racconto di un’esperienza che per l’autore ha tracciato una cesura con la vita precedente. Ci era tornato già nei suoi film, dal magnifico Garage Olimpo (1999) Marco Bechis, ma sempre nella «terza persona» della messinscena. Per la prima volta nel suo esordio da scrittore passa alla prima persona, con una narrazione lucida nella distanza della scrittura e, al tempo stesso, nell’adesione del vissuto.
Su questo bordo scorrono i giorni della prigionia, quando diventa un numero, piedi legati, nudo, occhi bendati, che affida solo all’udito – e a una immaginazione che esaspera il terrore – la percezione dell’ambiente. E la paura, l’angoscia, poi la liberazione, prima in un carcere «normale», il rientro in Italia. Fino agli anni recenti, al processo contro i suoi torturatori in Argentina, questa sua memoria diretta restituisce una storia recente e complessa, si fa romanzo generazionale, e insieme esplorazione dell’intimità dell’autore che sin dall’adolescenza, tra altri traumi dolorosi, è in cerca di risposte.

Il romanzo ci offre anche un «controcampo», o delle chiavi di accesso ai suoi film, le storie famigliari,la figura della madre molto presente. «Ho riscritto il libro quando mio padre non c’era già più. Mia madre è stata la mia guida nell’ultima stesura, ricordava i fatti con estrema chiarezza. Nella distanza si tende a reinventare la realtà, la sola certezza per me era che c’è un prima che ho dovuto riscrivere dopo la prigionia» dice Marco Bechis. Ci parliamo su zoom, lui è a Punta del Este dove prepara un nuovo film.

L’esperienza del tuo sequestro da parte dei militari argentini era al centro di «Garage Olimpo» (1999), la dittatura di Videla, i suoi crimini, la violenza, i desaparecidos tornano in «Figli/Hijos» (2002). «La solitudine del sovversivo» riprende queste questioni e al tempo stesso illumina le scelte del tuo cinema – capiamo la Patagonia di «Alambrado» (1991) o «La terra degli uomini rossi» (2008) – nella scelta di mettere in campo la tua vita intera, i tuoi ricordi di bambino, di adolescente, la tua irrequietezza. E questo passando dalla terza persona dello schermo alla prima. A quali domande hai cercato in questa nuova forma una risposta?
Mi sono chiesto spesso perché ho voluto scrivere un libro, e mi ripeto che è per dire cose che non sono riuscito a mostrare nei miei film, anche se questo non significa che cambierò mezzo espressivo, il romanzo è per me un passaggio. Quando ho iniziato a lavorare a La solitudine del sovversivo non essendo uno scrittore mi sono detto che dovevo pormi dei limiti, ho deciso che sarebbero stati nella scelta di una totale soggetività. In qualche modo è come se dessi voce al resto della storia, non vedo nel libro un completamento dei miei film, penso piuttosto che li attraversa rispondendo a un’esigenza di testimonianza con cui sopravvivere alla gabbia. Che forse è persino una dimensione da cui non voglio uscire – il film che sto scrivendo tratterà una vicenda simile – ma l’uso della prima persona e del presente mi hanno permesso di scrivere ciò che ricordavo e di muovermi in quella non-verità che è parte dell’interpretazione soggettiva di una narrazione. All’inizio ho tentato la terza persona ma l’ho scartata subito, produceva una distanza che non funzionava. Il mio riferimento è stato il memoir in presa diretta, il cinema mi ha aiutato con la pratica del montaggio: tutto il racconto è molto montato ma con una libertà che le immagini non permettono. In un film quando si uniscono due scene diverse si deve fare attenzione ai vestiti degli attori, al luogo, alla luce, non si possono muovere le sequenze qua e là a meno di non rigirarle. Scrivendo invece ho spostato molti blocchi secondo le mie esigenze narrative.

In che modo hai costruito lo spazio nella parola?
Non volevo descrivere i fatti. Ho pensato spesso ai miei genitori, ai sentimenti che avevano provato mentre ero prigioniero e loro non sapevano neppure dove fossi. Avevo anche molti dubbi su a chi potesse interessare questa storia finché non ho iniziato a immaginarla come il racconto di una generazione. Prima però ho seguito altre piste: avevo pensato a un personaggio che torna in Patagonia a recuperare le terre della madre. Pian piano ho cominciato a procedere linearmente e grazie a Dayin, la mia compagna del tempo, ho capito che tutto doveva iniziare nel momento in cui mi hanno sequestrato. Solo partendo da lì, in una continua oscillazione tra Italia e Argentina, avrei potuto mettere insieme una serie di fatti, Lotta continua, i Montoneros, il femminismo, «Rosso», la rivoluzione in Portogallo, l’idea di una pratica militante e rivoluzionaria di un «qui e ora» della armi che ho conosciuto in Argentina ma presente, seppure in modi diversi, anche in Italia, che erano la mia storia e insieme la trama di un’epoca e di una memoria collettiva.

Il personaggio di Muñaca, la giovane Montoneros che avevi conosciuto nell’appartamento in cui vivevi a Buenos Aires e che ritrovi in prigionia è molto doloroso.
Era stata a lei a denunciarmi indicandomi quando uscivo da scuola. I militari ottenevano le informazioni con la tortura, e la promessa di risparmiare chi parlava – cosa naturalmente non vera. Muñaca aveva accesso ai dossier dei prigionieri politici e li passava ai Montoneros che individuavano così i militari responsabili: molti erano stati uccisi. Nella prigione clandestina dove ero detenuto lavava i pavimenti, era stata torturata con ferocia, stuprata – le donne prigioniere lo erano tutte regolarmente. La prima volta che l’ho vista aveva le pupille dilatate, sembrava in uno stato allucinatorio. Dopo tanto tempo lì dentro ci si chiedeva se fuori l’umanità esistesse ancora, e io ne ero la prova vivente.

Spesso leggendo il libro viene da chiedersi come non ti eri reso conto del rischio, perché sei rimasto coi Montoneros non condividendo la loro strategia politica, perché non sei tornato in Italia. È come se cercassi qualcosa al di là della militanza, dell’impegno sociale – il progetto didattico coi bambini indios – che ti spingeva al pericolo.
All’origine c’era il bisogno di conoscere la terra dove ero nato e cresciuto seppure in una comunità privilegiata, la borghesia italiana benestante, che non mi aveva dato una percezione reale del mondo intorno a me. Ricordo l’angoscia di mia madre dopo il golpe di Pinochet in Cile, nel 1973, quando non riusciva a comunicare coi suoi parenti; ho capito allora che c’era qualcos’altro, e che mi interessava molto di più di quella tranquillità borghese. Ho iniziato a viaggiare in autostop, a allontanarmi dal futuro pensato per me da mio padre, a girare l’Argentina cercando di capire i luoghi e le radici della famiglia di mia madre. Intanto la situazione nel Paese precipitava, dopo la morte di Peron la presidenza di Isabelita aveva esasperato il conflitto sociale, lei stessa anche se non in modo esplicito «tollerava» la repressione della Triple A, l’Alleanza Anticomunista Argentina che uccideva oppositori, voci critiche e militanti di sinistra. Finché nel 1976 si arriva al golpe di Videla. Ma è proprio per capire meglio le mie scelte che ho intrecciato diversi piani temporali, tornando appunto al trauma della morte di mio fratello più piccolo, quando ero un ragazzino. Quel lutto ci ha allontanati, per me ha significato la perdita dei miei genitori che si sono rinchiusi in loro stessi, provocandomi una vocazione al suicidio che si esprimeva nell’incoscienza davanti al rischio: da allora è come se avessi cercato di raggiungere inconsciamente mio padre e mia madre in quel luogo di morte. Sono consapevolezze che ho conquistato molto tardi, dopo anni di terapia ma era importante per me tenere tutto insieme.

Che famiglia era la tua?
Con una impronta patriarcale, anche se mia madre aveva molta influenza le decisioni importanti le prendeva mio padre. Lui voleva che studiassi economia, io scambiavo i libri di Adam Smith che mi regalava con Marx e Il capitale. Con mia madre avevo una maggiore affinità, come lei cilena che si era dovuta adattare all’Argentina, mi sentivo uno sradicato quando avevamo lasciato Buenos Aires per l’Italia dopo la morte di mio fratello; ero portatore della sua nostalgia. Tutto questo si potrebbe ricondurre a un «normale» scontro tra figlio e genitori se non ci fosse stato quel lutto: i nostri rapporti famigliari si erano modificati all’interno di una catastrofe che ha cambiato l’intero corso della vita. A questo si aggiungeva il mio sentimento di estraneità, mi sono sempre sentito estraneo in Italia, e poi anche in Argentina quando sono tornato. Ero raccapricciato dalla violenza e dall’ingiustizia ma non potevo condividere le istanze dei Montoneros a cui mi ero avvicinato. Vivevo una costante lacerazione, mi sentivo in una zona nella quale non si comprende più dove sta la giustizia o la verità. Eppure ero rimasto, nonostante la paura ogni volta che rientravo a casa di trovare l’esercito. Confusamente capivo anche che i questa mia ostinazione da borghese più o meno illuminato cercavo un modo per pormi davanti all’altro diversamente, Forse è stata questa ricerca a spingermi nella scelta di fare cinema