Il pettine, la doccia, lo specchio. Le Marche sono conformate come l’utensile per capelli: la lunga striscia costiera sull’Adriatico da cui partono pendii, colline, montagne. Nel «cratere» tutti terrorizzati dal box in bagno: completamente nudi, senza scarpe né bagaglio del cuore, come si scappa da casa per la nuova scossa di terremoto? Il sisma infinito riflette un’identità in macerie, sospesa fra la «normalità» prima del 24 agosto 2016 e l’emergenza nella quotidianità che non si ricostruisce.
Sull’Appennino marchigiano che si tuffa nel lago artificiale di San Lorenzo (spiaggia dell’estate alternativa, nonostante il livello dell’acqua sia drasticamente più basso per motivi di sicurezza), ammesso e non concesso che si faccia il callo alla paura, è la rabbia a stringere i pugni o alzare la voce del «popolo dei Sibillini» – gente abituata da sempre a conoscere la natura, coltivare i campi, governare il gregge e proprio per questo spaesata nel sentire, invece, la terra tremare di continuo con una raffica sorda che avvicina un cielo inquietante.

Sintetizza sconsolato Mario Sensini, giornalista economico del Corriere della Sera originario di Fiastra, che ha visto crollare le case di famiglia: «Nei borghi dell’Appennino, è terremotata anche l’informazione. Così ho deciso di aprire il blog Sibillaonline proprio per cercare di garantirla, come nel caso dell’ordinanza che permette ai comuni di ripristinare i cimiteri distrutti in deroga alle leggi esistenti. I due articoli dell’ordinanza, cioè meno di cento parole, sono stati scritti in dieci mesi…». Non solo il «cratere» delle Marche è uscito in fretta dallo spettro dei media, ma ora sembra una sorta di buco nero che inghiotte la burocrazia insieme alle speranze.
Eppure c’è un milione di tonnellate di macerie ancora sparse in 53 Comuni delle province (abolite) di Ascoli, Macerata e Fermo. E sono state addirittura sorteggiate le prime decine di casette finalmente pronte per gli sfollati, quando qui ne aspettavano quasi duemila in modo da poter immaginare un inverno diverso da campeggi, pensioni e hotel in riva all’Adriatico. Il commissario straordinario Vasco Errani può dannarsi l’anima, tuttavia nelle Marche si sentono abbandonati, presi in giro, traditi. E il governatore Luca Ceriscioli (50enne professore di matematica di un istituto tecnico industriale, svezzato in politica dalla Quercia) ragiona ancora… da sindaco di Pesaro.

Sono davvero emblematiche due vicende nella gestione amministrativa del post-terremoto. A Castelluccio, frazione di Norcia sul crinale umbro, hanno immaginato un «villaggio commerciale a deltaplano» con il tetto d’erba e annesso mega-parcheggio: progetto «tartufesco» come lo definisce Sauro Presenzini, presidente del Wwf di Perugia, che proprio il manifesto ha rivelato al resto d’Italia. Nelle Marche, la giunta regionale aveva pensato bene di spendere 5,4 milioni di euro degli sms solidali nella pista ciclabile (sic!) dall’Abbadia di Fiastra a Sarnano senza innescare una legittima rivolta popolare.
Il terremoto della politica targata Pd fa ribollire il sangue a chi scruta la zona rossa, macinando centinaia di chilometri al giorno, magari con i figli a scuola da una parte e gli anziani genitori che traslocano a ripetizione. Gente di fatto senza reddito (o costretta a riaprire l’attività altrove); contadini sopravvissuti al nevone dell’ultimo inverno; piccoli borghi dove ogni minimo intervento edilizio dipende da uffici lontani, sguarniti e altrettanto terremotati.

La mostra fotografica (curata da Francesco Spè) con gli scatti di Giulia Falistocco, Marco Gentili e Michele Massetani restituisce la posta in gioco: «Abbiamo seguito come filo conduttore le “Storie dai borghi” raccolte da Loredana Lipperini. Una narrazione che inizia dalle scosse di agosto e ottobre raccontando i problemi, le mancanze istituzionali, i piccoli drammi quotidiani, ma che narra anche la tenacia, la voglia di ricominciare, le storie di rinascita che sono nate e che nasceranno come reazione al terremoto».
Senza scomodare il Friuli del lontano 1976, un metro di paragone è molto più vicino: Fabriano, che nel 1997 fu messa in ginocchio dal sisma e l’estate scorsa è rimasta in piedi. Nico Bazzoli, ricercatore di sociologia all’Università di Urbino, osserva: «Allora la ricostruzione di Fabriano in sostanza funzionò proprio come intervento pubblico. Oggi alle Marche non bastano il miliardo dell’Ue né gli stanziamenti governativi che coprono, forse, la metà del fabbisogno. Piuttosto sembra concretizzarsi la «strategia dell’abbandono», perché le zone interne terremotate sono demograficamente le più vecchie delle Marche e già prima del 2016 colpite dalla riduzione dei servizi, a cominciare da quelli socio-sanitari».

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Una «scossa» è arrivata grazie al Festival autogestito «Terre in moto», che ha rivitalizzato non solo Fiastra e agitato il comandante della locale stazione dei carabinieri, prima a caccia di documenti fra gli attivisti e poi in borghese fra il pubblico dei dibattiti. È la resistenza dell’orgoglio dei montanari che nelle «Marche plurali» rappresentano la natura e, anche se gli spot televisivi sono concentrati altrove, sono più che decisivi nel presidiare il sentiero del futuro.

Raffaele Pozzi si era trasferito da Como a San Ginesio proprio quando il terremoto rivoluzionava tutto e tutti, a cominciare da Giovannino (testimonial vivente, con famiglia e vicinato, della tradizione agro-alimentare): «Vengo dall’esperienza dell’Arci e dei gruppi di acquisto solidali. Nell’Appennino marchigiano vedevo la sana agricoltura di auto-sussistenza, la produzione di bene alimentare, la genuinità biologica, la cura del territorio, le radici delle comunità. D’improvviso, mi sono ritrovato con la zona rossa da Ussita a Visso e i borghi rasi al suolo. Ma con Ilaria siamo rimasti comunque a fianco di questa gente che non molla, anche se è stata dimenticata solo perché il terremoto non ha provocato vittime e non c’è un luogo simbolo come Amatrice», racconta in una pausa del Festival, «ma proprio nell’Alto Maceratese va preservata l’agricoltura multifunzionale elogiata dai manuali: due maiali, mucche e vitelli, fieno e grano, due filari di vigna. E sono le persone la vera grande ricchezza d’Italia: a maggior ragione se contadini e allevatori qui non sono ricattabili dal profitto sul cibo industrializzato o dalla sottrazione della ricchezza ambientale. Vogliamo, sul serio, un futuro infinito per questi territori. Abbandonarli alla ginestra che dilaga o, peggio, al turismo virtuale sarebbe un danno peggiore delle scosse di terremoto».