Nelle Marche la partita è considerata chiusa. Se Pd e Movimento 5 Stelle riusciranno ad allearsi per le regionali, vorrà dire che l’accordo sarà stato raggiunto a Roma, sopra le teste delle dirigenze locali. I democratici marchigiani ci hanno provato in tutti i modi a convincere il candidato pentastellato Gian Mario Mercorelli e il facilitatore Giorgio Fede (senatore eletto nel collegio di Ascoli) a convergere su Maurizio Mangialardi, ma dall’altra parte non sono mai arrivate risposte meno che inorridite. «Il tempo è scaduto, non mi interessa una poltroncina ben pagata», ha detto Mercorelli, con Fede che gli ha fatto eco: «Siamo alle solite, non c’è nessun tipo di percorso, nessuna indicazione dai vertici romani, né alcuna discussione sul piano territoriale».

Martedì sera, durante un comizio a Recanati, Mangialardi si è detto fiducioso sull’esito della trattativa, e dalla segreteria del Pd ancora ieri continuavano ad arrivare rumors ottimisti («Chiudiamo domani», cioè oggi), ma a ben guardare si tratta solo di mirabili esempi dell’arte di fare buon viso a cattivo gioco.
Gli occhi, comunque, restano puntati sulle Marche: se qui (e in Puglia) dovesse vincere la destra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni potrebbero legittimamente cantare vittoria e a quel punto a finire in difficoltà sarebbe il governo. È per questo che il premier Giuseppe Conte in persona ha lanciato un appello pubblico all’unità, accolto con entusiasmo forse addirittura eccessivo da molte frange del Pd.

L’effetto di questo balletto è che proprio nelle Marche il Movimento 5 Stelle sta andando rapidamente in frantumi: a Pesaro, gli attivisti che già a gennaio accettarono la proposta del sindaco pd Matteo Ricci di entrare in giunta, hanno ormai ufficialmente rotto i rapporti con il resto del gruppo, tanto che il «facilitatore» Fede li ha addirittura tolti dal gruppo di Whatsapp in cui si discute della questione.

Ad Ancona, i militanti di Jesi – patria dell’influente senatore Mauro Coltorti – non usano giri di parole nel chiedere le teste dei vertici regionali: «La votazione di Rousseau ha smascherato la manovra, pessima e suicida, con la quale è stata imposta la linea del soli contro tutti alle regionali – si legge in una nota -, via Mercorelli e via il simbolo alla lista delle Marche. Via gli incapaci e dannosi facilitatori che hanno assecondato tutta questa vergogna politica». Il problema è che tra i gruppi locali e i vertici nazionali sostanzialmente non esiste dialogo e ogni decisione viene presa o con l’intermediazione di qualche parlamentare o direttamente dalle alte sfere, il cui disegno è quasi sempre indiscutibile, oltre che imperscrutabile.

L’ultimo sondaggio, realizzato dall’agenzia Dire, vede la destra di Francesco Acquaroli in una forbice compresa tra il 43,5 e il 47,5%, Maurizio Mangialardi tra il 36 e il 40%, Gian Mario Mercorelli tra il 12,5 e il 16,5% e tutti gli altri (la sinistra di Roberto Mancini, i comunisti di Fabio Pasquinelli, Vox, gli Ecologisti confederati) tra l’1 e il 3%.

Le distanze non appaiono incolmabili e non serve ricorrere all’abaco per capire che un ingresso della lista 5 Stelle nel centrosinistra potrebbe rivelarsi decisivo per la vittoria finale. Il sindaco di Pesaro Ricci infatti fino all’ultimo momento utile di non stanca di ripetere: «Nelle Marche ci sono tutte le condizioni per fare un’alleanza per vincere e sostenere il governo Conte. Adesso la palla passa a Crimi e Di Maio, se vogliono fare l’alleanza e sostenere il governo Conte l’accordo si fa in mezz’ora. Se invece vogliono andare dietro la testardaggine di Mercorelli se ne prendano la responsabilità».

Certo, l’aritmetica non è politica e un accordo che, dovesse arrivare, si farebbe soltanto a trentasei ore dalla presentazione delle liste non potrà mai sembrare qualcosa di diverso da un cartello elettorale. Ma questo è un altro discorso: al momento fermare la destra è l’unico obiettivo che hanno in comune il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle.