La scossa popolare all’inerzia di governo, commissario straordinario e regione. «Montanari sì, fessi no»: a distanza di quasi un anno lo striscione riassume la rabbia dei comitati che hanno scavato la trincea della resistenza per poter tornare a vivere nell’Appennino terremotato.

Oggi cala il sipario sul festival gratuito e autogestito «Terre in moto», che a San Lorenzo sopra il lago artificiale ha alternato per quattro giorni concerti, spettacoli, incontri e degustazioni. Iniziativa sposata dal sindaco Claudio Castelletti (che dal 2004 è il punto di riferimento dei 543 residenti sparsi in otto frazioni di montagna) e dalla Proloco, perché finalmente catalizza la partecipazione di centinaia fra giovani, attivisti e famiglie.

Gente arrivata da mezza Italia a scoprire suggestioni, bellezze, umanità. Ma anche a scrutare il «cratere dimenticato». Un’iniezione di speranza, nonostante l’arrogante provocazione del comandante dei carabinieri «a caccia» di documenti al festival.

Ieri mattina, sotto il tendone in riva alla spiaggia, si è tornati a fare i conti con l’incubo del sisma che nella notte aveva risvegliato lo stesso terrore del 24 agosto 2016, replicato dalla scossa del 26 ottobre con epicentro a Castelsantangelo sul Nera.

Il festival certifica senza ombra di dubbio il clamoroso fallimento istituzionale.

Enza Amici dei centri sociali delle Marche scandisce: «Sono un milione 87 mila 252 le tonnellate di macerie che, secondo l’ultima stima della Regione, il terremoto ha lasciato sul terreno di 53 Comuni nelle province di Ascoli, Macerata e Fermo. Il disastro naturale sta diventando catastrofe sociale: si sta spopolando l’area dell’Appennino centrale, trasformando in zona rossa interi paesi».

Al microfono si alternano le testimonianze, a volte interrotte dal pianto, di chi viveva in un piccolo paradiso che d’improvviso ha spalancato l’inferno della totale, assoluta, devastante insicurezza. C’è chi gestiva un rifugio di montagna ora senza più acqua e corrente o chi sopravvive da «pendolare» a 150 chilometri da casa; famiglie smembrate con i figli in scuole lontane; anziani lasciati soli negli alberghi sull’Adriatico.

Resistere per tornare a ricostruire è la parola d’ordine: fa a pugni però con ordinanze, procedure, vincoli, burocrazia che nemmeno Vasco Errani riesce a sbrogliare.

Il blogger Wolf Bukowski (che giovedì ha presentato il suo libro La santa crociata del porco) commenta: «Il festival fa emergere la correttezza della chiave di lettura: illumina la relazione dei processi istituzionali messi o non messi in campo nel cratere delle Marche con le imposizioni delle Grandi Opere stile centro commerciale o degli “interventi” delle mega-aziende calate dall’alto, magari con la tentazione della zona economica speciale esentasse…».

E aggiunge sull’onda dell’assemblea di ieri: «Si intuisce una perfetta continuità prima e dopo il terremoto, che è servito anche a togliere strati di finzione. I tagli a sanità, istruzione, trasporti, servizi c’erano già prima della “strategia dell’abbandono” perseguita in questi mesi dalla Regione Marche».

Eppure, qui si continua a puntare i piedi. Come Enzo Rendina, che è rimasto a presidiare le «sue» macerie a Pescara del Tronto finché non l’hanno ammanettato e perfino messo sul banco degli imputati. Sorride ironico mentre racconta la seconda udienza del processo, disertata dai carabinieri testimoni d’accusa: «Il giudice li ha multati con 250 euro a testa: erano ad Ancona alla festa dell’Arma a ricevere la proposta di encomio. E ora saranno costretti a comparire in aula. Accompagnati dai genitori?».

D’altro canto, proprio nelle Marche terremotate esiste un metro di paragone. Fabriano, 26 settembre 1997: una catastrofe capace di produrre la ricostruzione che ha «retto» da molti punti di vista, ma che non sembra più rappresentare il modello di intervento pubblico.

Forse, come quasi tutti sostengono, da allora sono cambiati gli equilibri politici delle Marche, con Pesaro al centro di tutto e l’entroterra sempre più fuori dai giochi (bacino elettorale ininfluente rispetto alle grandi manovre nel Pd?).

Raffaele Pozzi è uno degli organizzatori di «Terre in moto». Ha coordinato l’assemblea-dibattito di ieri mattina e abbozza una significativa conclusione: «È in atto da 11 mesi una strategia che porta allo svuotamento dei luoghi grazie alla spaccatura delle comunità e dei loro vincoli sociali. Migliaia di persone “traslocate” in tanti e diversi… posti di soggiorno. Più gli spot sulla ripresa economica dei territori, paradossalmente senza persone che restano lontane da casa, continuano a non avere reddito e sono impossibilitate perfino ai microinterventi di ricostruzione. Uno scenario che vogliamo continuare a denunciare, perché nelle Marche il futuro si costruisce soltanto grazie alla “rete” sociale, al potere intrinseco di questi territori e al rispetto di un patrimonio unico nel suo genere».

Così arriva la scossa popolare ai palazzi, vicini e lontani, della politica. Qui nessuno può permettersi di andare in vacanza. Tanto più dopo l’ultima scossa in piena notte che ha rimesso all’ordine del giorno l’insicurezza all’ombra dei Monti Sibillini.

Terremoto non può più essere sinonimo esclusivo di Amatrice o Norcia. Dobbiamo imparare tutti a ricordarci di Arquata del Tronto, Visso, Ussita e di tutti i piccoli borghi della dorsale appenninica a cavallo fra Marche, Umbria e Abruzzo.

Soprattutto prima che esploda davvero l’onda d’urto del loro scontento.