Marcello Rumma

 

Cosa rimane della vita di un uomo? Come si racconta un’esistenza? Penso a queste domande mentre visito a Napoli una mostra, I sei anni di Marcello Rumma 1965-’70 (a cura di Gabriele Guercio con Andrea Viliani, Museo Madre, fino al 13 aprile), che sin dal titolo affronta l’enigma di quella che è stata una delle personalità più originali e al tempo stesso meno note nell’Italia degli anni sessanta.
Narrare una vita è problema antico e molteplici le soluzioni: res gestae, «cenni biografici», voci di enciclopedia, fansites. Tutte queste forme cercano di distillare dal tempo della vita individuale, dalle opere, dalle gesta appunto, il senso di un’esistenza umana. Meno di frequente ci si è misurati con lo stesso compito in uno spazio di esposizione e ancor più raramente affrontando non artisti o personaggi storici ma figure di intellettuali. Come rendere il senso di un’avventura della conoscenza, di una «azione ristretta» che per definizione resta per lo più invisibile, affidata com’è all’azione del pensiero e della parola?
Una mostra, è banale ricordarlo, non si compone solo dei materiali che espone. È piuttosto uno specifico montaggio – di opere, immagini, reperti, testimonianze, ecc. – che guida lo spettatore in uno spaziotempo speciale, invitandolo a stabilire nuove connessioni, a collegare tempo attuale e lunga durata storica, ritmo della visione e ritmo del corpo, attenzione focalizzata e pensieri preconsci. Per questo il dispositivo di un’esposizione può catturare forse meglio della pagina scritta qualcosa di ciò che rimane fatalmente in ombra dell’esperienza individuale, il tempo interiore, la «vita vivente», e far emergere così un’interpretazione, un senso inedito, nella forma di un’autentica esperienza cognitiva.
È questo l’aspetto che più mi colpisce della mostra di Napoli: il suo percorso non si limita ad allineare documenti e opere in rapporto con la biografia di Rumma. Piuttosto, crea un ambiente in cui ogni elemento risulta collegato in modo insieme fisico e metaforico: nelle sale uniformemente dipinte di grigio la luce attenuata e diffusa produce un’atmosfera densa e particolarissima, in cui ogni oggetto o immagine emerge con singolare intensità drammatica. Forse mai il Mappamondo (1968) di Michelangelo Pistoletto o La decapitazione del rinoceronte (1966-’67) di Pino Pascali, per citare solo due tra i molti lavori importanti in mostra, sono apparsi tanto potenti, suggestivi, remoti. Una mezza luce che induce un’attenzione intensificata ed è al tempo stesso la manifestazione fisica della penombra in cui la figura di Rumma si è ritirata dopo la sua morte. Un tacito gesto di sfida alle convenzioni dello spettacolo espositivo in cui si fondono una meditazione sul destino di ogni individuo e sulla natura stessa dell’operazione storica, sulla sua immanente dialettica tra passato e presente, tra rivelazione e oblio.
Ma chi è stato dunque Marcello Rumma? Un giovane intellettuale anzitutto, nato a Salerno e morto suicida a soli ventotto anni nel 1970, che sembra riassumere in sé molti tratti della sua epoca. Collezionista d’arte contemporanea, uomo di cultura e d’azione, editore di ricerca, Rumma interpreta il generale risveglio della società italiana, la spinta riformista, la necessità di un cambiamento da realizzare qui e ora. Centrale nella sua azione rimarrà sempre l’idea di comunità, di volta in volta composta dagli studenti del liceo salernitano di cui rinnova la didattica, dagli artisti, dai critici e dagli spettatori dell’arte, dagli autori e dai lettori dei libri e delle riviste che pubblica.
La casa editrice che Rumma fonda nel 1968 rappresenta in questo senso una sintesi della sua visione e un contributo decisivo per la cultura italiana del tempo. Le sue sono scelte originali e coraggiose che presentano autori e snodi essenziali della cultura novecentesca o testimonianze di artisti, come la raccolta di scritti di Marcel Duchamp, Marchand du Sel (1969), o il volume di Michelangelo Pistoletto L’uomo nero, il lato insopportabile (1970).
Mi dice Gabriele Guercio di aver pensato la mostra su tre piani interconnessi: uno storico-artistico, uno psicologico e uno politico. Al primo appartengono le iniziative più note di Rumma, le tre edizioni della Rassegna d’Arte Internazionale di Amalfi allestite negli Antichi Arsenali, una delle prime manifestazioni in Italia in cui l’arte contemporanea appariva al di fuori dei suoi contesti tradizionali. Nel secondo, quello psicologico, prende forma un ritratto che si misura con la sfocatura prodotta dall’accelerazione che caratterizza la biografia di Rumma. Nel terzo, quello politico, si precisa il suo profilo di esploratore appassionato del presente e di visionario capace di intuire nuove possibilità, di sognare un altro mondo, una figura dunque irriducibile all’ambigua figura dell’«operatore culturale» divenuta sin troppo familiare nei decenni successivi.
Centrali nella mostra sono evidentemente le sale dedicate alle tre edizioni della rassegna di Amalfi, eventi emblematici del repentino passaggio dalla sensibilità pop alla definitiva, stordente «fuoriuscita dal quadro» e alla processualità praticate dall’Arte povera. La prima, dal titolo husserliano Aspetti del «ritorno alle cose stesse», curata da Renato Barilli nel 1966, misurava in presa diretta il nuovo interesse degli artisti per l’oggetto coinvolgendo protagonisti del rinnovo della pittura in Italia come, fra gli altri, Del Pezzo, Grisi, Schifano. La seconda edizione, L’impatto percettivo, curata da Alberto Boatto e Filiberto Menna nel ’67, muoveva da una ambiziosa lettura critica delle diverse tendenze internazionali (new dada, pop art, ricerche astratte e optical) andando alla ricerca di una «zona di intersezione», di una «convergenza su una linea di oggettualità percettiva» (full disclosure: firmo il testo introduttivo di questa sezione).
La terza e più famosa edizione, Arte povera + Azioni povere, curata da Germano Celant, rappresentò un vero e proprio spartiacque nella storia delle esposizioni. Opere, performances, discussioni collettive fecero emergere ad Amalfi un atteggiamento creativo del tutto nuovo, imbevuto dell’energia e dall’urgenza contestatrice del Sessantotto e capace al tempo stesso di un rivoluzionamento dei procedimenti artistici che avrà effetti profondi e duraturi. Gli artisti dell’Arte povera presentarono per l’occasione lavori realizzati con materiali eterogenei, installazioni, lavori effimeri e azioni che invasero in qualche caso le strade del centro storico. In una sala della mostra un documentario RAI firmato di Emidio Greco riesce ancora a restituire l’atmosfera febbrile ed entusiastica di giornate diventate subito memorabili.
La penombra in cui è immersa l’esposizione finisce così per creare un effetto inatteso: obbligando a uno sforzo percettivo più intenso fa apparire la distanza temporale e culturale dalla vicenda di Rumma e al tempo stesso ne avvicina la sostanza più difficile da cogliere, lo spessore di invenzione e di esperienza innovativa del breve arco della sua vita activa. Più che come una rievocazione o un archivio aperto la mostra si presenta dunque come un analogo, una sorta di modello tridimensionale del pensiero, delle illuminazioni, dei desideri e delle conquiste di un uomo che non si è mai pensato in forma solitaria ma sempre immerso in una rete di relazioni vive e vissute, di un movimento collettivo da nutrire e da estendere.
L’ultima sala, l’unica in cui domini il bianco e un’illuminazione intensa, è in questo senso la più singolare e inattesa. Lasciata vuota, vi risuonano l’eco della fine della vita e la profezia di un’eredità.