Marassi è un quartiere di Genova e plana sulle vite perché è un gene. Racchiude i suoi abitanti in una bolla di pasqualine perfette, di prescinseua nelle dosi giuste, incastona un amore che vuole farsi prigioniero. E quando si esce da lì, tutto può succedere. La vita e la morte si possono anche ribaltare, chi è vivo e chi è morto dopo la Tragedia? Rimane il gene Marassi, quello che a Ferdinando avevano trasmesso i genitori, quel gene che «come avrebbe capito molto dopo, lo avrebbe segnato per sempre».

Michele Vaccari in Un marito (Rizzoli, pp. 240, euro 20) prende due vite, che per molto tempo sono una, e le incastra in un meccanismo iniziale dove il grande manovratore è Marassi dove «molte cose sono invisibili», «una palude», «l’unico quartiere del pianeta in cui, per toglierti ogni illusione, lo stadio e il carcere si trovano nella stessa via, uno di fronte all’altro». Come tutta la città – dove il «degrado è bellezza» – quel laboratorio sociale e politico movimenta i passi e i sentimenti della sua popolazione. Genova, Marassi, laboratorio che viene riconosciuto solo dopo immani disgrazie. In Un marito la Tragedia avverrà a Milano, consegnando al libro un viaggio circolare contrassegnato da ritorni appesi a spazi e tempi, custoditi nei corpi, amati nei sentimenti.

A MARASSI vivono Patrizia e Ferdinando, «Nella Marassi che hanno scelto per crescere e morire insieme» dove «la notte è il tempo del rientro a casa» e dove «la loro unione profonde la tipica, invisibile luminescenza delle cose inestimabili». La loro vita ruota attorno alla rosticceria regno di Patrizia per il quale Ferdinando si impegna, mettendoci amore ma chiedendosi altresì se quella passione, voluta e amata, non rischi di assomigliare a uno specchio intento a riflettere il sole di un altro.
Arriva il compleanno, 50 anni, e Ferdinando propone un viaggio, che è tale solo per i genovesi, a Milano. E a Milano comincia un’altra vita per Ferdinando, una battaglia contro la sentenza: «nessuna traccia» del corpo della moglie dopo un’esplosione dirompente. Ma Ferdinando sopravvive.

DOPO LA TRAGEDIA Vaccari non cambia il registro linguistico, prosegue nella sua fitta trama di quotidianità colma di riflessi cangianti, scegliendo di percorrere anche le vicende legate agli aspetti più morbosi, i media, il selfie con «il sopravvissuto», con stile soave e preciso, accarezzando una temporalità incerta e fondamentale per toccare le corde universali dei sentimenti. È la visuale del lettore a trasformarsi attraverso un incidere straniante a segnare il passo, ad accelerare, a fermarsi, a posare i piedi a terra. La visione tossica di Ferdinando, la Stanza, il recupero degli affetti dipendenti da Patrizia e non da lui, Ferdinando solo nella sua convinzione, nella sua visione del mondo che ormai più che traballare scroscia contro il senso comune (ma in quanto «comune», si può forse dire reale, veritiero o addirittura sincero?), la scelta di affondare nella propria sofferenza, tornare a Milano con e senza corpi, il suo, quello di Patrizia.

È UN PROCEDERE sinuoso che convince a chiedersi dove sia finita, dove sia nascosta, lei: del resto non esiste l’uno senza l’altro, non esistono insieme senza Marassi, né Marassi potrebbe esistere a Milano, ricorda Ferdinando. E il percorso di liberazione sa essere terribile, perché implacabile messaggero di solitudine. Serve un passaggio rapido eppure epocale, una pasqualina impresentabile, una commemorazione della Tragedia con parole ucroniche, il passo inaspettato di un mondo altro che non prevede Luce a scendere e abbracciare una rosticceria, per chiederci – in fondo – se Marassi esista davvero o se esista davvero «il nostro mondo» dopo la Tragedia. O se alla fine ad aver ragione è proprio lui, Ferdinando, che «forse è stato prescelto dalla storia per essere messaggero di un’epoca finita».