«Che ne sarebbe di questa idea, di dare del colore alle statue di tipo berniniano? Sarebbe una prova: forse ci guadagnerebbero». Con pungente sarcasmo, Jacob Burckhardt tirava le somme nel suo Cicerone (1855) sulla scultura italiana del Sei-Settecento, chiamata per la prima volta (in un’accezione per la verità tutt’altro che positiva) «barocca». Il passaggio è logico. Secondo il severo storico dell’arte svizzero, Bernini aveva voluto competere con la pittura alla ricerca di emozioni e naturalismo e, per farlo, aveva trapanato e innalzato al cielo il marmo, creando una plastica dagli effetti ‘pittorici’. Dunque, perché si era fermato? Più coerente sarebbe stato se avesse continuato l’imitazione della pittura e del vero ricorrendo al colore. Rispetto al genio della Roma dei papi, meglio allora (concludeva lo studioso, tra il velato e lo sfacciato) Anton Maria Maragliano, il creatore delle più mirabolanti sculture lignee colorate della Genova dei dogi.
A spiegare chi è costui, anche a un pubblico di non specialisti, è ora una mostra bella, ricca e scenografica dal titolo Maragliano 1664-1739. Lo spettacolo della scultura in legno a Genova, allestita nel Palazzo Reale del capoluogo ligure fino al 10 marzo, e corredata di un catalogo aperto alla schedatura tanto di alcuni importanti complessi decorativi ancora in situ, quanto di una sessantina di opere esposte (Sagep, euro 30,00). Giocando su un intreccio cronologico-iconografico che illustra i precursori di Maragliano, così come gli esiti più tardi della sua bottega, l’esposizione porta in scena tipologie diverse di sculture, tra le quali sorprendono alcune casse processionali recanti veri e propri teatri sacri con gruppi addirittura di dodici figure a grandezza naturale. Il curatore è Daniele Sanguineti, da anni attento indagatore della produzione dell’artista e della sua opera diffusa nel territorio ligure. E forse, proprio in questo, ovvero nel rapporto con il territorio, sta una delle sfide più seducenti della mostra, visto che ancora oggi (come nel Settecento) molte delle statue lignee, dei crocifissi o dei santi-reliquiari dello scultore continuano a rivestire un valore devozionale importante presso le comunità religiose, dove sono conservati da secoli.
Un fatto, questo, davanti al quale gli storici dell’arte hanno reagito negli ultimi duecento anni in modo diverso. A metà Ottocento, proprio appellandosi alla funzione ‘devota’ di queste opere colorate, Burckhardt chiudeva il cerchio e insisteva nel Cicerone su un’idea di arte barocca come arte da chiesa, arte della Controriforma, all’interno della quale Bernini e Maragliano venivano a convivere pacificamente, tanto da essere addirittura confrontabili. All’inizio del Novecento, poi, le opere dello scultore genovese persero d’interesse agli occhi degli studiosi, impegnati a differenziare l’arte ‘pura’ dall’arte ‘popolaresca’, o a sposare un’idea wölffliniana di Barocco, che distingueva tra ‘pittorico’ e ‘variopinto’: ovviamente a vantaggio di Bernini, legittimato nella sua scultura antiplastica, e ai danni di Maragliano, troppo vicino alla Natura e relegato in soffitta. Oggi, in un momento in cui tra MET e Fondazione Prada tutti sembrano cercare nuovi canoni per valutare la scultura colorata e mettere a fuoco il Barocco, non solo la mostra a Genova appare di una sconcertante modernità, ma soprattutto le opere esposte si offrono alla visione libere da vecchi schemi concettuali, lasciando finalmente emergere le qualità di uno scultore di altissimo livello.
Innanzitutto per perizia tecnica. Maragliano non scade mai nella serialità, anche quando è costretto a confrontarsi con iconografie devote quasi immutabili, come i crocefissi, e gioca con la materia lignea immaginando architetture portanti fatte di nuvole, per sostenere figure lanciate in mirabili peripezie aeree. Accade così nel San Michele Arcangelo di Celle Ligure, dove la gara indetta con la pittura costringe l’artista a superare inediti problemi di statica. Né l’esempio delle statue marmoree collocate in eterno dai suoi colleghi in nicchie è sufficiente per Maragliano, che deve moltiplicare i punti di vista a causa della natura processionale delle sue opere, come nel San Sebastiano di Rapallo. Un’arte polimaterica, dunque, ricca di sfide plastiche e pittoriche, e non priva di preziosità coloristiche e di superficie, che l’artista intaglia, graffia e incide, creando panneggi intarsiati, morbide piume e corpi pulsanti, trasformati poi dal pigmento pittorico in variopinti incarnati rubensiani, dove al roseo si mescola il ceruleo.
Ma a sorprendere davvero non è solo la gioiosa capacità dello scultore di rielaborare il patrimonio figurativo locale in tutte le sue declinazioni, da Filippo Parodi a Domenico e Paolo Gerolamo Piola, quanto soprattutto la sua abilità nello scegliere i propri riferimenti formali anche tra soluzioni lontane nel tempo. Rivivono le Madonne algardiane in alcune statue mariane dell’artista. Rivive in alcuni suoi evangelici tableaux vivants d’inizio Settecento quella plasticità eroica e neorinascimentale del primo Seicento romano, di cui Maragliano intuisce in maniera tutt’altro che ingenua le straordinarie capacità espressive; di cui rielabora il lessico per codificarlo in gesti e sguardi significanti; di cui moltiplica gli affetti e le emozioni. E nel creare ‘Bernini colorati’ e ‘Rubens tridimensionali’, ha contribuito di certo a donarci un’idea precisa di arte barocca, forse tra le più autentiche