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Mara Cerri, «L’amica geniale» a fumetti

Mara Cerri, «L’amica geniale» a fumetti

Intervista L’illustratriceracconta la sua trasposizione grafica realizzata insieme alla drammaturga e attrice Chiara Lagani

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 9 luglio 2022

A dieci anni dalla pubblicazione del primo volume della tetralogia de L’amica geniale di Elena Ferrante, mentre molti telespettatori aspettano la quarta stagione della serie, Coconino Press porta in libreria la trasposizione a fumetti. A firmarla sono l’illustratrice Mara Cerri e la drammaturga e attrice Chiara Lagani, già autrice della scrittura teatrale prodotta dalla sua compagnia Fanny and Alexander con il titolo Storia di un’amicizia. Abbiamo parlato del libro con Mara Cerri al Passaggi Festival di Fano.

L’amica geniale: un romanzo che diventa un caso editoriale, una serie televisiva, una pièce teatrale e adesso un fumetto. Com’è nato il vostro progetto?
Ho incontrato Chiara nel 2008 e dopo poco mi ha proposto di illustrare I Libri di Oz, che stava traducendo per Einaudi. Tra noi non esisteva il desiderio di piegare un linguaggio all’altro, ma di scoprire che rumore facesse l’avvicinamento di parola e immagine. Ci univa inoltre la passione per i romanzi della Ferrante: Chiara stava iniziando a lavorare sulla scrittura teatrale e io avevo già illustrato La spiaggia di notte, un racconto per ragazzi pubblicato dall’editore e/o. Abbiamo parlato con Giovanni Ferrara (il direttore editoriale di Coconino Press ndr), che già da un po’ pensava alla trasposizione a fumetti del romanzo e i nostri desideri si sono incontrati.

In questo racconto, fatto di scrittura e che di scrittura parla, la storia trova nel disegno un nuovo codice: nella sequenza iniziale Lenù sta disegnando i personaggi del racconto. Perché questa scelta?
Il gesto del disegno ricorre in due momenti: mi piace pensare che sia un gesto semplice e potente. Quando Lenú decide di raccontare la storia di Lila e della loro amicizia lo fa quasi in modo vendicativo, stufa dei suoi atteggiamenti. Divenuta una scrittrice decide di svelare la loro storia; nel disegno al quale ti riferisci, il gesto di Lenù serve in parte per presentare i personaggi, in parte per ribadire il ruolo di narratrice e la sua prima persona. Il secondo momento è quando Lila disegna le scarpe e tempera la matita con un trincetto; di nuovo si tratta di un passaggio che sottolinea l’autodeterminazione femminile. È anche un omaggio al linguaggio grafico e alle sue possibilità, alle soluzioni che si trovano disegnando.

Pur nella complessità e stratificazione dei livelli del racconto, dove si rappresenta da un lato una comunità regolata dai meccanismi del rione e dall’alro la storia intima di due donne, sono presenti gli elementi di certe strutture narrative-fiaba e romanzo di formazione, in primis- così come certi personaggi archetipici. In questo senso la sequenza delle bambole, centrale anche nella trasposizione teatrale, è fondamentale.

Sì: Lila e Lenù giocano con le bambole che sono la loro rappresentazione, delle quali nel testo si dice «le loro paure erano le nostre, loro non erano felici, così come non lo eravamo noi». Lila getta la propria bambola nel buio, nella bocca oscura dello scantinato della casa di Don Achille, testualmente l’orco della storia. Lenù accetta la sfida, ma è solo Lila che, una volta scese nel ventre oscuro dell’edificio, fruga per terra tra i frantumi, in una frantumaglia -tanto cara alla Ferrante-che è deposito del tempo senza ordine di storia. Per recuperare le bambole dovranno confrontarsi direttamente con Don Achille, dal quale le loro famiglie cercano di tenerle lontane e che ha effettivamente tutte le caratteristiche dell’orco delle favole ed è descritto, con quella capacità sconvolgente che ha la Ferrante di raccontare l’immaginario dell’infanzia nelle sue pieghe più inquietanti, come un ammasso di ferraglia organica. Dopo aver disegnato la vignetta in cui Don Achille dà loro dei soldi per ricomprare le bambole vi ho trovato molto dei meccanismi sociali del rione. Nella rappresentazione dei soldi e in quella del trincetto con il quale più tardi Lila minaccia Marcello Solara, c’è un segno rosso, quasi bruciato: mi sono trovata a pensare a posteriori di averlo disegnato così, come un elemento abbagliante, un qualcosa che facciamo fatica a guardare.

In questa sfida iniziale si rintraccia l’elemento del limite, della soglia, presente sia a livello fisico nel rione, i cui limiti non vanno superati, che a livello psichico dove sconfinano nell’esperienza della smarginatura, uno scollamento dalla realtà che investe Lila per prima nella notte del capodanno 1958. Come lo hai rappresentato?
Nella scena ci sono dei colori profondamente diversi: il buio profondo e i colori impattanti dovevano convivere. Le esplosioni dei fuochi d’artificio riverberano sui loro volti, ho voluto che avessero quasi la forza di spaccarli; ho pensato alle bambole di porcellana che hanno il volto incrinato e qualcosa di quella finzione accade sul volto di Lila. Qualcosa in lei si rompe mentre si accorge della violenza della scena, chiude gli occhi e si abbandona a questa consapevolezza, ed è come se i fuochi le esplodessero sul volto, in una simulazione di una dissolvenza incrociata cinematografica. I colori vengono inghiottiti da una massa oscura sul mare e come si dice nel libro, tutti i margini cadono, anche i suoi.

Questa tensione della sfida e del limite costringe a un movimento, che non sempre ha esiti positivi poiché non sempre è uno spostamento legato a un successo esistenziale. Il linguaggio del fumetto ha in sé come elemento costitutivo un elemento che pone una distanza e una tensione tra le immagini, lo spazio bianco. Tu sei principalmente un’illustratrice: come hai convissuto con questo spazio?
Tecnicamente non è per me un elemento nuovo, o troppo lontano, perché occupandomi anche di animazione lo storyboard mi è familiare. Inoltre nel fumetto, quando lavori su un’inquadratura hai già la tensione verso quella successiva. Nello spazio bianco voglio sperimentare la libertà di questo passaggio tra inquadrature, anche se le singole immagini non hanno la risolutezza e la determinazione di un’unica illustrazione. Lo spazio è una pausa necessaria per inserire parole o silenzi. Insieme a Chiara e Davide Reviati, supervisore artistico del libro, abbiamo limato, asciugato e organizzato i testi per trovare un equilibrio nella pagina.

Parliamo di Napoli: Mario Martone, già regista della prima trasposizione cinematografica di un’opera della Ferrante («L’amore molesto», 1995), intervistato da Bruno di Marino su queste pagine poco tempo affermava che più che essere i corpi ad abitare Napoli è Napoli che abita i corpi. Questo succede anche nelle tue tavole, dove spaccati architettonici e dettagli delle costruzioni sono in dialogo costante con le figure umane, specialmente con i ritratti.
Il rione cinematografico è ricostruito, ma quello originale esiste. Chiara Lagani lo aveva visitato prima di scrivere il testo teatrale, insieme non abbiamo potuto farlo subito perché eravamo in pieno lockdown, ma per i colori è stato importante vedere, successivamente, il cielo azzurro dietro a questi palazzi color pastello e un’atmosfera generale che ho riversato nel segno deciso. I palazzi con queste bocche aperte «fanno e rimangiano», sputano e inghiottono di nuovo le ragazze e gli altri abitanti del rione.

Elena Ferrante ha dichiarato che scrivere è un atto di superbia dimostrando di essere consapevole di arrogarsi il diritto alla narrazione con l’atto della scrittura, forse esasperato dal suo anonimato. Qual è il tuo rapporto con l’atto della pubblicazione e come è stato per l’adattamento dell’opera di un’autrice con la quale non vi siete confrontate direttamente?
Credo che se non fosse stato l’editore a proporlo, forse non avremmo fatto questo libro perché ci vuole un po’ di incoscienza ad avvicinarsi a un’opera come questa. Se scrivere è un atto di superbia, forse Elena Ferrante fa i conti con la misura, come se la temesse e la amministrasse. Ci ha scritto parole di incoraggiamento dopo aver visto le prime tavole e abbiamo ricevuto i suoi apprezzamenti anche dopo la pubblicazione. Io cerco di tener viva la curiosità e la meraviglia, la possibilità di commuoversi di fronte allo sviluppo del lavoro.

Di recente le tavole del vostro fumetto sono state esposte alla Galleria stamperia Squadro di Bologna. Come sono realizzate?
Sono acrilici e china su carta semplice: mi piace che il rapporto tra il gesto e la carta sia spontaneo. Le immagini sono molto stratificate: a volte non disegno e vado direttamente con il pennello, ma intervengo molte volte fino a trovare e riconoscere il segno. Squadro ha esposto le tavole e prodotto un trittico di tavole in serigrafia; il palazzo del rione in notturna, le bambine che fuggono dalla cantina di Don Achille, Lenù sott’acqua a Ischia. Un notturno, un sotterraneo e un subacqueo. Una scelta bellissima.

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