A Milano, nella primavera del 1967 i redattori di una strana rivista, «Mondo Beat», fingendosi boy scout, affittano un terreno in via Ripamonti, una lunga arteria che, partendo da Porta Vigentina, si perde nelle campagne lombarde, per insediarvi un campeggio dove accogliere «scappati di casa» e giovani desiderosi di nuove avventure. Lo scandalo è immediato. Subito si parla di Barbonia city. Molti onesti cittadini si appostano nei dintorni per dare un’occhiata, con un misto di indignazione e voyeurismo, al luogo dove si radunano «capelloni» e «ninfette», questi gli epiteti prevalenti nella stampa del tempo per connotare quella gioventù dissidente, non inquadrabile nelle opposte e speculari discipline di chiesa o partito. Adriano Celentano si fa interprete del panico morale della maggioranza silenziosa con una canzone, Tre passi avanti, in cui, dopo avere sentenziato che «crolla il mondo beat», stigmatizza i giovani promiscui, con i capelli lunghi («Visti di spalle chi è la donna non si sa»), che non si lavano, si drogano e hanno pure dimenticato Dio.

LO SGOMBERO non tarda a venire, sotto lo sguardo di una folla che plaude alla fine dell’impero del vizio. Da lì inizia, nel nostro paese, la storia delle controculture, e inevitabilmente proprio di lì, attraverso la narrazione in prima persona di uno dei protagonisti di quella vicenda, Gianni de Martino, prende avvio il tentativo di mappatura delle molteplici storie dell’underground milanese di Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano (agenzia x, pp. 224, euro 15).
Il volume raccoglie gli interventi di un incontro tenutosi alla Casa della cultura, promosso da Moicana, un’anomala agenzia di ricerca sulle controculture promossa da Nicola Del Corno e Marco Philopat. Si tratta di contributi che privilegiano il terreno della narrazione e dell’autonarrazione di chi c’era o chi c’è sul distacco analitico dello specialista, con una particolare sensibilità per la dimensione geografica delle subculture o controculture, per le mappe urbane costruite e vissute, contemporaneamente o in sequenza, dalle diverse tribù. Si parte con «Mondo Beat», e si prosegue con il profilo della Brera pre-gentrification tracciato da Matteo Guarnaccia, in cui si mostra come lo specifico degli stili controculturali impatti su un pre-esistente humus fatto di bohème, avanguardie artistiche, dopolavoro dell’industria culturale. Passando agli anni Settanta, Eugenio Finardi affronta il tema della scena rock e dei festival, Nicola Del Corno quello di «Re nudo», mentre Gianfranco Manfredi si sofferma sulla soglia di quel ciclo, il movimento del 77. Non mancano incursioni sulle declinazioni artistiche (Giorgio Zanchetti) e teatrali (Ferdinando Bruni e Francesco Frongia) della dimensione underground.

A QUEL PUNTO interviene una cesura, si consuma la svolta degli anni Ottanta. Poi verranno il punk (Valcavi), e il post punk (Tosoni e Zuccalà), fino alla cosiddetta «ultima sottocultura», quella legata al rave, le cui specificità milanesi sono ricostruite da Pablito el Drito. Considerando i vari contributi, emergono alcune problematiche di fondo. In primo luogo, abbiamo la questione delle scelte terminologiche, e inevitabilmente concettuali, utilizzate da Moicana per definire il proprio oggetto. Come si desume dal sottotitolo, si opta per controcultura. Non mancano i riferimenti all’underground, che in generale si caratterizza soprattutto in termini estetici, in contrapposizione al mainstream o al gusto legittimo, e che pur costituendo una dimensione interna all’ambito controculturale appare dotata di una propria autonomia e di una specifica genealogia. Per definire le culture dissidenti giovanili, tuttavia, a partire dalla pubblicazione, sulla scia del punk, di un fortunato volume di Dick Hebdige (recentemente riproposto da Meltemi), si è affermato l’uso, specie in ambito accademico, del termine «sottocultura». Nel corso del tempo, non sono emerse numerose critiche nei confronti di un approccio incentrato sull’idea di una «resistenza tramite rituali».

A entrare in crisi, tuttavia, sembra essere non solo lo stile analitico tipico dei British Cultural Studies ma anche il referente a cui si applicava. La precarizzazione delle condizioni lavorative e dei vincoli familiari, che costituivano la soglia di accesso all’età adulta, dilata progressivamente l’interstizialità nella quale si collocava la dimensione giovanile. In tal modo, si disinnesca il meccanismo di scansione generazionale che fin dai tempi del rock n’ roll aveva ritmato il succedersi delle ondate sottoculturali. I segni distintivi, a partire dall’abbigliamento, se da una parte proliferano, dall’altra non rimandano più ad alcun significato che vada oltre la distinzione individuale in un contesto in cui gli stili sottoculturali del passato tornano continuamente, ibridandosi e sovrapponendosi. In proposito, si potrebbe parlare di fine delle sottoculture, nell’orizzonte più generale del chiudersi di una parabola, quella dei giovani come categoria sociale sui generis. Oppure, ed è questa la scommessa di Moicana, ciò a cui assistiamo altro non è che una dislocazione verso nuovi codici. Non a caso, nei contributi più centrati sul presente, che si concentrano su pratiche che vanno dal writing al poetry slam, passando per metabrand e sport popolare, la questione della musica e della «manipolazione simbolica» legata al look sembrano svolgere un ruolo non certo centrale.