Negli anni della condivisione automatizzata del dolore, dell’invidia moltiplicata a colpi di approvazione e gare d’odio, mentre il mercato rifila sempre più edulcorate ricette per la felicità e l’intelligenza emotiva diventa la nuova frontiera del successo, più si fanno insistenti i «cosa senti» e i «cosa provi», più si ha l’impressione di inoltrarsi in un continente sconosciuto, addirittura sommerso. Il significato della parola «emozione» (da emovère, muovere fuori, smuovere) sembra precipitato negli abissi dei nostri corpi costretti alla paralisi, dei nostri nervi anestetizzati per forza di cose.

SERVIREBBE la vista dei geografi a guarirci dalla smania di intraprendere strade a senso unico e strettoie prive d’uscita. Il fascino degli atlanti sta forse proprio nell’autorizzarci a cambiare direzione, tornare indietro percorrendo giri larghi e spingerci avanti nella lettura fin dove ci serve, oppure non finire mai. È quello che accade con L’Atlante delle emozioni umane (pp. 373, euro 22) di Tiffany Watt Smith, storica culturale nel comitato direttivo del Centre for the History of the Emotions all’università Queen Mary di Londra. Portato in Italia da Utet, tradotto da Violetta Bellocchio, il volume raccoglie più di centocinquanta emozioni umane sotto una copertina rigida che raffigura una mappa con sopra segnate alcune delle parole contenute nella raccolta come fossero città.

Poco importa se siamo convinti che contino solo limitate universali passioni, o se pensiamo che le parole non bastino a descrivere tutti gli affetti che siamo in grado di provare, l’autrice ci mette in guardia subito: per avvistare le emozioni ci vorrà comunque la pazienza e l’intuizione del classificatore di nuvole, il coraggio dell’esploratore. Ma classificare le nuvole è impossibile se la tendenza è a sconfinare le une nelle altre, cambiare imprevedibilmente forma e misura. È per questo che il volume si propone come una collezione di minuscoli saggi dal mondo, un reticolo di storie ordinate secondo l’alfabeto e connesse da continui rimandi tra una voce e l’altra che consentono una navigazione trasversale, mai prescritta.

La geografia qui non è soltanto evocazione: l’umana esperienza dei vissuti si modifica al variare della latitudine, delle emozioni esiste una cultura legata ai luoghi. Tra gli indios machiguenga del Perù, ad esempio, non esiste una parola che corrisponda alla nostra «preoccupazione». E mentre i baining della Nuova Guinea ogni volta che un ospite amato lascia la casa riempiono d’acqua una ciotola che nella notte assorba tutto l’awumbuk – l’insieme di inerzia e tristezza che il distacco comporta – i giapponesi chiamano amae l’impulso di abbandonarsi tra le braccia di una persona cara. Insomma, fa una certa differenza gestire un attacco di panico tra il desiderio di scomparire e il dolce far niente che segue alla curiosità morbosa o all’irrequietezza generata dall’ansia da squillo, sapendo che i pintupi dell’Australia occidentale sono in grado di nominare quindici diversi tipi di paura, che esiste una parola francese per l’euforia che ci sorprende nel fantasticare di buttare le nostre cose dalla finestra (Ilinx), che se ci sembra di avere nostalgia di un posto in cui non siamo mai stati non siamo matti ma esiste un termine (finlandese) preciso, kaukokaipuu.

LA MAPPATURA delle emozioni è una vera e propria arte e ha una genealogia lunga secoli. Giuliana Bruno, docente di Visual and Environmental Studies all’Università di Harward, la rintracciava minuziosamente nel suo Atlante delle emozioni (pp. 590, euro 30), un libro che nonostante il titolo ha una natura completamente diversa dall’Atlante di Watt Smith, e che in modo del tutto singolare raccoglie la personalissima ricerca di un’autrice perennemente in viaggio tra arte, architettura e cinema. La nuova edizione italiana (la prima è del 2006 per Bruno Mondadori), uscita per Johan&Levi, porta sulla copertina la foto dell’installazione di Guillermo Kutica, acrilico su sessanta materassi, esposta nel 1995 alla Whitechapel Gallery di Londra. Nel volume, Kutica, artista argentino di origini russo-ebraiche, viene citato insieme ad altre intelligenze dell’arte, del cinema e dell’architettura per aver contribuito a una grande, complicata, mappatura delle emozioni umane. Bruno si spinge fino alle radici più profonde del significato di emozione e allo stesso tempo lo reinventa come elemento geografico: l’emozione è sempre ciò che scaturisce dall’attraversamento di uno spazio.

Anche qui, il viaggio non è solo simbolico ma materiale, dal momento in cui viene recuperato lo slancio vitale tra corpi e paesaggi, quello erotico. Così l’Atlante di Bruno diventa esso stesso un edificio da esplorare, completo di ascensore, in cui è lecito saltare i piani. L’autrice spalanca il portone e poi ci consegna allo spaesamento della migrazione, di fronte al suo pellegrinare rizomatico tra le città del cinema, dentro e fuori le architetture delle sale cinematografiche, davanti alle strutture e agli edifici urbani, nelle gallerie d’arte e design in uno slalom di installazioni, fin dentro le case, in quel minuzioso scenario che non è solo arredamento d’interni ma può diventare il ritorno imprevisto alla terra d’origine. Mentre nel monumentale incrocio di autostrade possibili cerchiamo un percorso tutto per noi, può capitare allora di chiederci che cosa c’entrino le emozioni con tutto questo. E qui sta il valore specifico dell’impresa di Bruno, quello di concederci un’esperienza.

È IL NOSTRO ARCHIVIO mnemonico, l’atlante della nostra particolare esistenza, a prendere forma e articolarsi attraverso la relazione elementare che intratteniamo con i luoghi, la capacità che abbiamo di mappare i sentimenti che ci hanno animati mentre li abbiamo abitati e che hanno reso il nostro corpo un planisfero a metà strada tra la carta geografica e la mappa anatomica.
Dalla Carte de Tendre disegnata nel seicento da Madame de Scudéry alle lanterne magiche (che già Ingmar Bergman aveva raccontato in modo tanto commovente), dalla femme-maison di Louise Bourgeois alle città interiori di Wim Wenders e Walter Benjamin, fino al giardino delle regioni tenere di Annette Messager, al viaggio all’interno del corpo di Rebecca Horn, la cartografia delle emozioni si fa mappa intima e discorso amoroso. L’Atlante da parete di Gerard Richter (sicuramente d’ispirazione per il Visible Word di recente portato in giro dagli svizzeri Peter Fischli and David Weiss) è testimonianza vivente di questo processo: architettura tridimensionale, si nutre dell’inarrestabile accumulo di cartoline dalla memoria – visiva e tattile –, istantanee di una storia personale sistemate le une accanto alle altre lungo ampi, alti, spaziosi muri.

PUÒ GIRARE LA TESTA a intraprendere una traversata sentimentale di tale fattezza, a guardare un’arteria stradale come un vaso sanguigno, la pista d’atterraggio di un aeroporto come la pianta di un appartamento. Avviene così nelle opere di Kutica, che sopra i suoi materassi soli e vuoti riproduce le carte stradali d’Europa «è una storia scritta su un letto, incisa nella materia di una stanza, accumulata sugli strati geologici di un materasso usato, impigliata nei bottoni che ne punteggiano la superficie come ombelichi».