Occupa un posto eccentrico Arturo Zavattini nella storia della fotografia. In realtà, se volessimo provare a sfogliare un album che racchiuda la sua produzione, se volessimo estrapolare un esprit dalle sue immagini, rimarremmo sconcertati. Perché il viaggio visivo a cui invita Zavattini, schivo figlio di Cesare che proprio al padre deve la sua passione per l’immagine non solo cinematografica (fu lui a regalargli la prima macchina fotografica), procede a zig zag, invertendo spesso la marcia: affonda sì nei luoghi con un tuffo immersivo, ma lascia anche improvvisi spazi liberi per riempire quella «geografia» che scorre davanti agli occhi.
Così, dalla Lucania attraversata insieme a Ernesto De Martino ai bambini di Bangkok (piccola misura di civiltà che si staglia spesso davanti a «soglie»), fino alla Cuba delle danze di campagna o agli incontri casuali con Che Guevara, per finire con gli «affreschi» delle pause lavorative nei set del cinema, il mosaico composto da questo reporter ha un sapore antropologico, mescolato a uno creativo/artistico venato di reminiscenze tratte da film. Un bel cocktail da decrittare per lo spettatore, che può evitare di incagliarsi, affidandosi a un primitivo stupore. Arturo Zavattini non dà solo testimonianza, ma produce mondo ignoto: molto della ruvida vita che toccava ai contadini dell’Italia demartiniana, in quel magico 1952, l’abbiamo imparata dai suoi scatti.
La bella mostra romana che il Museo Nazionale delle Arti e tradizioni Popolari di Roma gli dedica (visitabile fino al 28 marzo, a cura di Francesco Faeta e Giacomo Daniele Fragapane) si concentra su un unico decennio: quello che va dagli anni 50 ai 60, mentre il libro di Contrasto che accompagna l’esposizione tenta un catalogo generale dell’opera di questo particolarissimo fotografo, nato a Luzzara nel 1930. Carattere non certo votato alla mondanità e alla promozione di se stesso, Zavattini ha custodito nel suo archivio personale molte pellicole e una grande parte di mondo è rimasta per cinquant’anni inedita e invisibile. Alcune di quelle immagini escono dal’oscurità che le aveva inghiottite e divengono «pubbliche» per la prima volta, stampate in occasione di questa rassegna: come spiega la direttrice del museo Maura Picciau, «emergono da un silenzio lungo quasi mezzo secolo».