In una fase di immobilità forzata com’è oggi la nostra, parlare di movimento può apparire fin paradossale. Se però si considera il primo movimento d’incontro con la città, ad esempio dei migranti, come forma anch’essa dell’abitare, è evidente come un tale straniamento dello sguardo possa indicarci una diversa prospettiva. E come queste forme di abitare transitorio possano aiutarci a riconsiderare la pianificazione delle città.
La questione dell’abitare transitorio viene indagata oramai da anni da un progetto di ricerca coordinato da Nausicaa Pezzoni, docente di Progettazione urbana al Politecnico di Milano e esperta di forme di welfare per la città contemporanea. A partire da Milano e con un’apertura che si va ampliando su scala europea è stato chiesto ai migranti di disegnare delle mappe per raccontare le forme del loro orientarsi e la loro immagine di città.

Con il progetto di ricerca «La città sradicata» lei porta avanti l’ipotesi che la condizione di instabilità cui la crescente mobilità delle popolazioni urbane sembra dar voce sia connaturata all’abitare contemporaneo. In che forme questo abitare sradicato ci riguarda tutti e perché lo stiamo drammaticamente sperimentando anche in questi giorni?

Lo spaesamento è la condizione che più ci colpisce in questi giorni in cui osserviamo le nostre città come non le avevamo mai viste e la prospettiva da cui le guardiamo – che sia una finestra o una strada semideserta – ci propone spazi irriconoscibili, dove sono cambiati i parametri delle relazioni tra noi e gli elementi urbani. Siamo circondati dalla distanza e non ci riconosciamo più nei luoghi che fino a ieri ci erano famigliari. Mi sembra l’esperienza più vicina alla condizione dei migranti che devono rapportarsi a una nuova città, e il nostro sguardo più simile al loro sguardo estraniato, privo dei riferimenti scontati per chi abita da sempre in un luogo.
L’ipotesi del mio lavoro è che l’instabilità e il movimento, che incidono sempre più profondamente nel dare forma alla città, siano connaturati all’abitare contemporaneo; che sia necessario sperimentare nuovi approcci perché l’urbanistica si interroghi su un abitare transitorio che pone nuove domande al suo progetto. Nella città oggi così vuota e immobile, ciò che paradossalmente emerge è un’estremizzazione dell’abitare sradicato, poiché si fa evidente la mancanza di tutto ciò che la anima: affiora ciò che la città non è, poiché rumori, densità e ritmi che solitamente attraversano i suoi spazi si sono rovesciati in un’alterità che ha bisogno di essere pensata. Proprio come i migranti, che si apprestano a rappresentare un territorio sconosciuto in modo da poterne decifrare gli elementi, da poterlo abitare.

È stato chiesto ai migranti di disegnare, carta e matita, la loro mappa della città, di pensarsi come abitanti con l’idea che questo punto di vista decentrato possa restituire una diversa geografia della città. Cosa ne emerso?
Dalle mappe emergono città che non conoscevamo. Luoghi che non compaiono sulla cartografia tecnica o che non erano mai stati osservati per il senso che assumono nella vita dei migranti: a Milano la piazza della stazione come luogo di incontro, o uno spiazzo anonimo che diviene moschea all’aperto nella festa di fine Ramadan. Forme inedite dell’abitare danno vita a riferimenti nuovi, spaesanti eppure potenzialmente accoglienti anche per l’abitante radicato che inizia a riconoscerne un altro possibile ruolo. Le mappe riportano elementi che si caricano di significati diversi a seconda di chi li osserva: il circuito del bus 90-91 raffigurato come il percorso più ricorrente nelle traiettorie dei migranti, ma anche come luogo da evitare da chi lo ritiene pericoloso proprio perché frequentato dai migranti.
La piazza del Duomo, riferimento principale ma anche luogo inaccessibile da chi non può acquistare i biglietti del tram per raggiungere il centro dallo scalo ferroviario in cui abita. E così a Rovereto si scopre che la montagna è un luogo amato ma irraggiungibile per chi non ha i documenti e non può allontanarsi dal campo profughi, o che il canale che attraversa la città è un luogo temuto perché l’acqua che vi scorre rimanda al ricordo del naufragio a cui i migranti intervistati erano sopravvissuti. Le mappe sono uno strumento di conoscenza e di mediazione attraverso cui la pianificazione può apprendere un nuovo linguaggio, può travalicare il suo tecnicismo facendo spazio a un vocabolario in cui inizia a esistere un’alterità che non era ancora stata rappresentata.

«La città sradicata» è un progetto che sta ampliando ormai il suo raggio d’indagine. Dopo Milano, Bologna, Rovereto e Parigi.Cosa sta emergendo da questa prospettiva dilatata dalla specifica città all’Europa? Cosa può produrre un ascolto incrociato, in termini di rivendicazioni inespresse, nuove consapevolezze e protagonismo dal basso?
La città sradicata può interessare ogni città d’approdo. I fenomeni migratori di questi anni hanno portato una parte crescente dell’umanità a una sospensione del diritto di cittadinanza, ossia a un abitare privo di quel «diritto di avere diritti» che è il fondamento della polis: una molteplicità unificata di cittadini che abita – e con pari dignità pianifica – uno spazio condiviso. In questo quadro costruire un piano di parità tra lo sguardo esperto e quello spaesato significa tentare di superare la prerogativa del potere sull’altro che da sempre divide chi appartiene – a un territorio, a un diritto, a un sistema – da chi è escluso. Dare in mano ai migranti la matita significa ascoltarne il punto di vista senza restringerlo alla dimensione autobiografica a cui spesso la loro voce è ricondotta. Significa recepire la parola dell’altro lasciando spazio a ciò che vorrà dire, nel modo in cui vorrà dirlo.
Dal punto di vista del progetto urbano, significa chiedere a chi approda di segnalare le questioni aperte dell’abitare la città e, potenzialmente, di definirne le prospettive di sviluppo: la mappa è un dispositivo progettuale che incide nel disegno al futuro del territorio. Una parola, un disegno che possono entrare in un dibattito mirato a scardinare la condizione segregata che accomuna tutti i migranti, poiché ne sovverte i presupposti di marginalizzazione e ne riconosce il contributo in termini di una progettualità capace di abitare un pensiero che si mette in relazione con una realtà estraniante.

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