Gli orti e i giardini che fanno da corolla al cerchio del centro storico di Irsina (l’antica Montepeloso) sono in attesa di un riordino che esalti la bellezza di questo paese (cripte, affreschi, la statua di S. Eufemia di Andrea Mantegna, vicoli, strade, sotterranei) e di questo territorio molto vasto, un tempo luogo mitico di lotte sociali e contadine, oggi in parte decaduto a causa della nuova emigrazione.
Da diversi anni, l’abbandono del centro storico ha subìto un’inversione di tendenza. Più di settanta famiglie per la maggior parte provenienti dal nord Europa (inglesi, belgi, svedesi, olandesi ma anche statunitensi, sudafricani, neozelandesi) hanno comprato casa a prezzi vantaggiosi qui e hanno deciso di passarvi il resto della loro vita. È stata una nuova iniezione di fiducia per questo paese importante della Basilicata che guarda dalla Valle del Bradano alle cittadine pugliesi di fronte. Nel tepore dell’estate ha fatto capolino un’iniziativa davvero originale e curiosa per molti: il festival cinematografico a impronta maori «Whakapapa» inventato da Joseph Rickit, artista neozelandese di origine Maori che vive qui insieme alla moglie Karen e che ha voluto investire il suo denaro (è fondatore e produttore della manifestazione) in questa lodevole iniziativa che ha mosso i primi passi con interessanti incontri e contaminazioni di natura cinematografica e antropologica.

RESIDENTI
«Sono un artista maori della Nuova Zelanda – racconta Joseph – residente in modo permanente in questo paese del Sud Italia. Avevamo deciso già da tempo, insieme a mia moglie anch’essa neozelandese, di fare qualcosa per il Sud che avesse come obiettivi unicità culturale e scambio tra la cultura italiana e internazionale e quella maori».
Va detto che è stato seminato un proficuo seme, naturalmente senza dimenticare alcune incongruenze, tra cui le inutili liturgie di premi e giurie che sono assolutamente fuori posto in incontri che hanno l’ambizione di definire un rapporto stretto e di scambio egualitario tra le varie culture cinematografiche. Del resto, aggiunge Karen: «Il nostro obiettivo è la fondazione di una nuova comunità ben oltre quindi l’importanza di un festival». Irsina può davvero diventare una metafora degli appennini meridionali (e non solo) se la questione dello spopolamento dei paesi di montagna e collina diventasse questione europea nel senso anche dello scambio di residenze come avviene qui.

IL PROGRAMMA
Le giornate del festival hanno visto un interessante excursus tra film corti e lunghi di svariati paesi che si sono confrontati, in contaminazione con le opere della regista maori Renae Maihi. E se alcuni film hanno risentito di una visione naturalisticamente compiaciuta, in altre il rapporto uomo natura (e storia) ha attraversato la complessità e la tragedia del vivere in comune con ambizioni artisticamente e antropologicamente riuscite. È il caso del viaggio turco della regista Guldem Durmaz (francese di origini anatoliche) alla ricerca della memoria del passato dei suoi avi per dare un senso compiuto al presente nel lungometraggio As We Dig (Kazarken). O i corti e i mediometraggi del regista belga Jennequin Rémi, tra cui This Evening My Heart Beats, vita di giovani togolesi, tra giochi, corteggiamenti, con un senso dell’umorismo che sbalordisce. E finalmente l’Africa torna al suo quotidiano, nei ritmi di vita, al di fuori di immigrazione e sbarchi. E non è un caso che Rémi citi espressamente Jean Rouch tra i suoi maestri, o il corto (trenta minuti) di Maurizio Borriello Faber Navalis, descrizione all’apparenza minuziosa e semplice (in realtà ha appreso molto bene la lezione di alcuni film e documentari di Werner Herzog) di un costruttore di barche, cioè lo stesso regista che per seguire questa grande passione ha passato dodici anni in Scandinavia. Nella retrospettiva di Renae Maihi, lo spirito del popolo maori ha destato la curiosità del pubblico presente e di molti appassionati.

RENAE MAIHI
Dal rapporto tra nativi americani e popolo maori alle violenze sessuali in quella popolazione, i film della Maihi hanno aperto squarci nuovi che la regista ha sintetizzato in questo modo: «Sia chiaro: io non voglio fare documentari per una questione di indole. Anzi, attraverso i film di finzione riesco ad arrivare meglio al cuore dei problemi che riguardano i maori. E, di più, aggiungo con gioia che il comportamento della mia gente è naturalmente portato alla fiction».
Si possono costruire comunità nuove attraverso il cinema? Può il cinema sfondare le porte di consumi ripetitivi e fine a se stessi e aprire nuove frontiere di sviluppo culturale complessivo? A Irsina ci stanno provando. Con un innesto tra culture nord occidentali, maori e del Sud d’Italia che può soltanto intrigare e dare frutti positivi. Naturalmente se le ambizioni restano alte. C’è già una ricerca di una sede nel centro storico dedicata al «Whakapapa». Che, ricordiamolo, significa: interrelazioni tra essere umani e tra viventi e cose.