Una delle prime fotografie di Giacomo Manzù (1908-’91) ritraggono lo scultore diciottenne, a Bergamo. È un’immagine figlia del suo tempo, che lo presenta ben vestito, come in un giorno di festa, secondo il canone di abbigliamento tipico di una foto-ricordo a cui si tramanda la propria effige. Simmetricamente nel 1970 uno scatto del fotografo statunitense di origini armene Yousuf Karsh lo vede in maniche di camicia carezzare con intensa concentrazione un suo cardinale, con una luce laterale che disegna nel buio il profilo della scultura e, come un riverbero, illumina il volto di Manzù e il cappello a larghe falde, che nel frattempo era diventato parte della sua immagine pubblica, impressa nel ricordo di chi aveva avuto modo di incontrarlo passeggiare sul litorale laziale.

Fra questi due estremi si muove Sulle tracce di Manzù, il libro scritto da Barbara Cinelli (e pubblicato da Officina Libraria, pp. 112, euro 19,00) come atto di apertura di una nuova stagione degli studi sullo scultore bergamasco, che da non molti anni è oggetto di rigorose indagini filologiche, a cui va il merito di aver ridisegnato l’assetto e le dinamiche della scultura di figura in Italia nei decenni centrali del Novecento. Il libro, infatti, vuole essere un corollario al più ambizioso progetto di messa a punto di un catalogo ragionato on-line dell’opera scultorea, pensato come opera in fieri per far fronte alla rapida obsolescenza delle pubblicazioni cartacee, impossibilitate a far fronte all’aggiornamento e implementazione dei dati a cui vanno inevitabilmente incontro tanto la storia di ogni singola opera d’arte quanto la schedatura nel suo insieme.

Non solo: il progetto recentemente avviato dalla Fondazione Giacomo Manzù e coordinato da Barbara Cinelli stessa intende far dialogare le varie parti del vasto archivio conservato nella villa di Ardea – dove lo scultore si era trasferito dai primi anni sessanta – grazie a una maschera di ricerca studiata da un gruppo di giovani storici dell’arte e volta a intrecciare dati e documenti di origine e qualità differenti, desunti dalla letteratura critica come dall’epistolario dell’artista, da vecchie schede o da annotazioni ereditate da pregressi tentativi di archiviazione di un corpus vasto e da trattare con qualche cautela.

Ma è soprattutto la fotografia a fare una parte protagonista, vera fonte su cui si imposta sia il futuro catalogo ragionato «perpetuo» dello scultore, sia il volume edito da Officina Libraria che vuole essere, come suggerisce il sottotitolo, un carotaggio di Indizi per una biografia, 1927-1977: una narrazione, dunque, focalizzata su mezzo secolo di vita e di scultura a partire dalle testimonianze fotografiche, senza essere una «biografia per immagini» che si serve di scatti di vario genere come ornamentale repertorio di aneddoti. Al contrario, avvisa la Cinelli in una breve nota finale sugli Usi (e abusi) delle fotografie, si tratta di un libro che si avvicina a questo materiale con lo stesso scrupolo che si dedicherebbe a un dipinto o a una scultura: non semplici riproduzioni per una delibazione estetica, né solo documenti, ma oggetti che portano elementi fattuali alla ricostruzione storica, commentati con asciuttezza e senza indugi speculativi nella loro specificità linguistica

Viene da chiedersi che effetto sortirebbe la vita di altri artisti italiani, magari consapevoli del valore della fotografia come Lucio Fontana o Renato Guttuso, messi sotto la stessa lente di ingrandimento.

La scommessa, dichiara Barbara Cinelli non senza una sferzata di militanza storico-artistica, sta infatti nell’indicare la via «per una biografia di “fatti” dove Manzù si libera dalle semplificazioni di una indiscriminata leggenda cresciuta con le esposizioni che si sono succedute dagli anni Settanta agli anni Novanta. Attraverso quelle esposizioni è stata costruita (…) un’immagine stereotipata di Giacomo Manzù: un artista al di sopra del tempo e della storia, consegnato a una dimensione mitica che ha determinato la completa rimozione della sua opera da parte degli storici dell’arte contemporanea».

Lo scultore bergamasco, trapiantato sul litorale romano, non fu infatti solo l’autore di legioni di ieratici cardinali, ritratti di pontefici e portali di chiese – a cui pure ha dato un volto nuovo, e congeniale al Concilio –, quasi un bonario corrispettivo laico di una devozione semplice e accostante, ma il perno di una complessa rete di relazioni. Non ci si sarebbe aspettati, per esempio, Ugo Mulas aggirarsi nel capannone-studio di Ardea, cogliendo in uno scatto intenso la luminosa rarefazione del grande ambiente, in cui in lontananza si muovono, elementi mobili in un paesaggio popolato di statue, l’artista stesso in compagnia di Mino Maccari e Marino Mazzacurati.
Accanto alla fotografia d’autore, che pure non manca (da Irving Penn ad Aurelio Amendola, cui spetta il compito di ricucire il filo del Realismo in nome del mito caravaggesco), c’è moltissima fotografia anonima che offre indizi, restituisce ambienti e prospettive per una narrazione diversa da quella della carta stampata: si dà conto, per esempio, delle reazioni del pubblico alle esposizioni, divergenti a volte dal resoconto dei cronisti; e si capisce qualcosa in più prestando attenzione ai dettagli di moda. Quanto erano eleganti gli artisti, per esempio, non solo nelle occasioni ufficiali, ma anche nel chiuso dei loro studi, o nelle aule d’accademia intenti a commentare il lavoro degli allievi con ampi gesti di quelle mani callose e sporche di gesso come eloquente commento ai valori plastici della scultura.

Anche un artista schivo come Manzù, insomma, non si sottraeva alla macchina fotografica, senza farsi cogliere alla sprovvista, forse addirittura attento a centellinare di cosa lasciare traccia, oppure no, nella selezione dei dati di realtà. È una storia «pubblica» dello scultore, scevra di voyeurismo: un ritratto nel suo tempo e, soprattutto, nei luoghi in cui ancora intensa è la sua pregnante presenza.