Sfogliare un qualsiasi fumetto di Manuele Fior o ammirare una sua illustrazione è cadere dentro al colore, respirare la stessa aria che circonda i personaggi, trepidare, commuoversi, sentirsi parte del disegno. Fior, classe 1975, cesenate e residente a Parigi è senza dubbio uno dei fumettisti italiani il cui lavoro è maggiormente riconosciuto e apprezzato all’estero. Decine di collaborazioni attive in Italia e all’estero su riviste e quotidiani e sette fumetti memorabili targati Coconino, tra cui Cinquemila chilometri al secondo, premiato con il riconoscimento assoluto ad Agoulème nel 2011 e L’intervista, un gioiello narrativo di compiuta rarefazione sci-fi. Sperimentatore incessante della traccia e delle sue infinite possibilità, Fior firma la sua prima grande pubblicazione antologica per la neonata Oblomov Edizioni. Lo abbiamo intervistato in occasione del lancio del libro questo fine settimana, a Lucca Comics & Games.
Manuele, come nasce l’idea di questo librone-come dici tu- e come arriva sul tavolo della neonata Oblomov?
Nasce da un’idea mia e di Igort: le illustrazioni per loro natura sono spesso difficili da rintracciare, per cui ho pensato che raccoglierle in un volume potesse essere una cosa interessante. I testi sono venuti dopo, guardando il progetto grafico di Francesca Luzzi; ho pensato che i commenti che ci facevamo tra noi potessero anche rimanere negli spazi tra le immagini.
Sin dall’inizio associ il lavoro del disegnatore a una disciplina marziale ma, d’altra parte, anche a una capacità visionaria, quella della luce a mezzogiorno, che fa vivere i colori e li rende miraggi. Come convivono in te-evidentemete benissimo-questi due aspetti della tua professione? Come dialogano tra loro?
Convivono molto naturalmente, quando mi alzo la mattina sono contento di correre al tavolo da disegno, la disciplina per cui non è una cosa che mi devo imporre, mi riesce spontanea. Sono metodico, e se è vero che certe visioni appaiono raramente e quando vogliono loro, nel frattempo trovo sempre molte cose da fare.
La tavola ispirata all’ album «The Madcup Laughs» di Syd Barret mi ha ricordato anche il Poema a fumetti di Buzzati…sono fuori strada?
Sinceramente non ci avevo pensato, ma il fatto che l’associ a Buzzati mi fa molto piacere.
Mi ha colpito molto l’aneddoto della maestra che dopo averti fatto colorare con le dita, gettò il tuo disegno. Si tratta di uno di quei piccoli traumi che segnano il cammino professionale? Questo libro antologico è in qualche modo una lunga seduta psicanalitica?
All’epoca ci ero rimasto un po’ male, quando ci ripenso adesso sento della tenerezza sia per me che per la maestra, vecchio stampo anni settanta come non se ne fanno più. Mi ricordo che avevo disegnato un vulcano. Penso che il mio cammino professionale fosse segnato da sempre, del resto. Il libro non è una seduta psicanalitica, non cerco delle risposte ma soltanto di raccontare al lettore quello che sta dietro le immagini, le infinite variabili che generano un disegno sulla carta.
Nel tuo libri ti esprimi spesso in termini di disegno, ma in realtà, a sfogliarne le tavole, ne emerge principalmente il Fior illustratore e pittore. Come arrivi alla narrazione sequenziale?
Forse perché più che l’illustrazione a me interessa la pittura, la sua storia mi sembra un serbatoio inesauribile al quale attingere per il mio lavoro. Mi interessa molto meno rovistare tra i miei simili, fatta eccezione per qualche illustratore. Il fumetto invece è tutta un’altra cosa ed è anche quello per cui mi sento più portato, è il progetto in cui posso convogliare tutto me stesso, senza compromessi e con dedizione assoluta.
L’aspetto formativo del tuo racconto mi affascina molto. Sono convinta che ogni lettura, ogni immagine e storia che incrocia il nostro cammino, sin dalla nostra infanzia, vada a formare un tassello della nostra coscienza e, talvolta, creatività adulta. Trovo molto assennato il passaggio in cui contesti la supposta limitata capacità di lettura dell’immagine da parte dei bambini. Solo una proposta «alta» è in grado di creare il terreno per futuri miraggi…ci vuoi raccontare a parte il verdissimo Giamburrasca di Vamba e l’eleganza di Dulac, quali sono gli altri miraggi o visioni dei tuoi anni di formazione?
La televisione ha avuto un ruolo fondamentale sulla formazione del mio immaginario di bambino, i leggendari fumetti in TV, seguiti dall’onda di animazione giapponese. Goldrake, Capitan Harlock, Remi sono stati i personaggi che ho cominciato a ricopiare sui quadernoni a quadretti, per tenerli con me anche quando la televisione era spenta.
In questo lungo flusso di coscienza colpisce la tua umiltà disarmante: posto che fare l’illustratore è una professione e che ti senti un privilegiato su quella poltrona, dici di aver accettato ogni tipo di commissione. Credo che anche questo ti abbia reso così versatile, assolutamente trasversale e capace di creare uno stile per ogni situazione. Sei d’accordo?
La modestia in pubblico è per stemperare l’indecente megalomania nel privato… Una volta a una convention un collezionista di schizzi mi ha chiesto un disegno sul suo albo, già pieno di firme. Alla prima pagina c’era un papero di Carl Barks, con sotto questa dicitura tremolante: «Grazie per farmi sentire così importante». Un motivo in meno di alzare la cresta, mi sono detto. Ho disegnato di tutto, è vero, per provare a me stesso e agli altri che avrei fatto del disegno la mia vita e non un hobby della domenica.
Nel tuo libro appaiono sorprendenti illustrazioni politiche o di attualità. La copertina di Linus è in effetti molto famosa. Che effetto ti fa ricevere critiche su lavori così delicati?
Non mi lascia indifferente, d’altronde una copertina è fatta per essere discussa. Quella in particolare voleva essere un epitaffio, un addio alle persone che sono morte ma anche a un’idea di Parigi, a quella leggerezza che la fa sopravvivere, malgrado le feroci contraddizioni che la contraddistinguono.
Ed ecco finalmente nominato uno dei maestri del colore, Lorenzo Mattotti. Cosa ammiri di lui?
Un po’ tutto, la sua concezione di questo mestiere, la profondità della sua visione, la sua intransigenza.
Nel tuo libro spesso affronti il tema della percezione dell’opera compiuta, una percezione spesso distante e diversa da quella del momento della creazione. Come affronti questo scarto?
Faccio quello che posso! Quando ti accorgi che alcune cose vecchie sono meglio di quello che stai facendo non è mai un bel momento, ma bisogna affrontarlo, sfidare il passato in un certo senso. Dirsi che farai ancora meglio. Poi a parte queste considerazioni la cosa che privilegio di più è il piacere durante il lavoro, per cui mi dico che se sto godendo va bene così, il risultato non sarò io a valutarlo.
Nella tua estrema libertà nella scelta di tecniche e procedimenti, c’è una costante, che è quella della concentrazione e della ricerca, anche poco ortodossa. Quanto influisce la realtà sull’ispirazione? Quanto l’urgenza creativa e quanto la necessità di produzione?
L’ispirazione è un concetto che mi sfugge, non riesco a mettere a fuoco cosa sia. Per me esiste la voglia di fare una cosa, poi quel desiderio si modifica grazie agli stimoli e agli ostacoli che la realtà mette tra l’ideazione e la realizzazione. È così è per l’illustrazione come per il fumetto.
Cosa succede quando il disegno, come racconti, non è più semplice rappresentazione, ma creazione di una realtà a sé stante? L’artista diviene una specie di medium?
Sì, nel mio caso succede molto raramente, ma succede. Gli artisti dell’art brut spesso si definivano medium, erano legati al mondo dello spiritismo perché non avendo una cultura di storia dell’arte alle spalle, interpretavano la rivelazione dell’immagine come un’epifania mistica, spirituale, dell’altro mondo. Le loro visioni sono per me tra le più potenti a cui si possa assistere. Quando invece il disegno è un mestiere, il rapporto con esso è più disincantato, e le occasioni di essere travolti dal suo messaggio più rare.
Con una grazia pari a quella dei tuoi disegni, nel tuo libro passi da riflessioni profonde sul fare arte a dettagli tecnici, da una dimensione affollata di artisti ai quali ti sei ispirato, a una ridottissima di lavoro intimo. La siepe e gli infiniti spazi, in continuo dialogo, in costante osmosi. È questo forse il volo che tanto ti affascina? La sospensione come metafora di ubiquità creativa?
Wow. La sospensione sì, come quando nei sogni stai levitando e appena te ne rendi conto sei già più pesante e ti riappoggi a terra. C’è in quel tipo di volo qualcosa di legato all’estasi, alla perdita di confine tra te e il mondo. Non so perché, ma è un tema che mi perseguita. Prima o poi dovrò farci qualcosa.
Vuoi anticiparci qualsiasi piccola cosa del tuo nuovo lavoro a fumetti che leggeremo quando sarà pronto?
Sia chiamerà Celestia, è una storia di fantascienza ambientata a Venezia. Penso che sia il libro più grande che ho fatto sino ad ora, sicuramente quello più d’azione.