Considerato uno dei migliori libri spagnoli degli ultimi anni, In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas (Guanda, pp. 416, euro 19, traduzione di Bruno Arpaia) è stato letto come un romanzo sulla memoria di una intera generazione, raffigurata attraverso un’indagine serrata sui rapporti umani, sulle relazioni tra padri e figli, sul fallimento e il possibile riscatto grazie alla scrittura. La narrazione insegue la storia personale di un io narrativo, fortemente autobiografico, che ricostruisce la propria esperienza vitale accumulando ricordi frammentari e oscillando continuamente tra la banalità del quotidiano e la liricità dell’evocazione. Un romanzo dunque affollato di oggetti e personaggi che la scrittura vuole salvare dall’oblio, per recuperare un periodo, gli anni sessanta e settanta, fondamentali per la Spagna e per l’Europa.

Dopo aver pubblicato diversi volumi di poesie e alcuni romanzi di taglio più sperimentale, Manuel Vilas ha raggiunto con questo libro una più sicura cifra narrativa, che gli ha permesso anche di evitare il rischio di un eccessivo minimalismo e di un localismo esasperato, tanto da poter essere letto come un quadro di una classe sociale, la piccola e media borghesia, che in tutta l’Europa occidentale fu protagonista di quella stagione. La scelta del prisma universale dell’esperienza familiare consente così di declinare la storia del personaggio su una scala che supera i ristretti confini nazionali per proiettarlo in una dimensione più ampia, come dimostrano le molte lingue in cui è già stato tradotto.
Manuel Vilas sarà il 4 giugno al Festival delle Letterature di Roma.

La forma del suo romanzo, che si presenta come una raccolta di frammenti, a volte anche molto brevi, gioca sulla frase essenziale, quasi aforistica. Per molti scrittori, soprattutto contemporanei, questa scelta esprime la frammentarietà del mondo in cui viviamo. Per lei cosa ha significato?

Per me non si tratta tanto di una scelta di tipo letterario, o di una maniera di esprimere la frammentarietà del mondo, quanto di una strategia per seguire i capricci della memoria, che non lavora in modo lineare. Ricordo qualcosa di vent’anni fa, poi all’improvviso qualcosa di ieri, con brevi flash, senza ordine, seguendo itinerari della memoria o del pensiero. Ad esempio in un passaggio il narratore ricorda suo padre che scende con l’ascensore – dedico un intero capitolo a questo ricordo – e il frammento si lega poi a un’altra memoria e ancora a un’ altra, perché così funziona la nostra testa.

Nel romanzo viene fuori anche una particolare attenzione verso la lingua, sia quella della scrittura che quella della quotidianità. A un certo punto lei scrive che «il passato è un rito di parole», mentre in un altro passaggio riflette sulla pronuncia molto peculiare di un personaggio. Da dove nasce questo tipo di attenzione?

Viene probabilmente da una serie di esperienze di vita. Quando morì mia madre mi resi conto che moriva anche una forma del parlare con lei. Con mio padre parlavo in modo diverso, entrambi i miei genitori non avevano fatto studi superiori e con loro usavo un linguaggio familiare, colloquiale, che quando morirono pensai non avrei più ascoltato. Non avrei più sentito quella maniera di pronunciare lo spagnolo di mia madre, per esempio. Qualcosa di simile si è riprodotto nel mio divorzio: le coppie costruiscono una lingua personale, una lingua sentimentale, e anche quella se ne va con la separazione. Dunque, mi sono reso conto di trovarmi davanti alla scomparsa di molte lingue diverse, gli idiomi dei sentimenti: con i propri congiunti non si parla la lingua della grammatica, ma una lingua affettiva, destinata a scomparire con loro. Mi sono sentito orfano di queste lingue, e per me scrivere il romanzo è stato come dedicarmi a una liturgia dell’addio attraverso la lingua.

Il suo romanzo investe la storia dagli anni sessanta in poi, vista dalla prospettiva della «piccola borghesia», che lei osserva con una sorta di amore-odio. All’inizio si legge che «la coscienza di classe non deve mai mancarci», ma la classe a cui lei si riferisce sembra ormai scomparsa, insieme ai padri e alle madri.

La storia della classe media spagnola degli anni sessanta e settanta in cui sono nato e sono stato educato credo sia stata uguale un po’ ovunque, perlomeno nell’Europa occidentale, quando la condizione operaia conobbe, grazie alla crescita economica, una specie di redenzione. Oggi ci dicono che è stata tutta un’illusione. Scrivendo sono riandato al momento di prosperità vissuto da mio padre e mia madre, nati durante la Guerra Civile, con tutti gli orrori di cui in casa non si parlava quasi mai. Con la trasformazione della Spagna le cose iniziarono ad andare meglio per la mia famiglia – una casa, una macchina, i figli, abbiamo bei ricordi di quegli anni, ricordi che desideravo si riflettessero nel romanzo, anni importanti, perché lì si costruì quel che siamo adesso, con tutti i problemi relativi.

In effetti la ricostruzione di quel mondo è uno degli aspetti più interessanti del romanzo: avviene attraverso l’evocazione e la descrizione di oggetti concreti, quotidiani, a volte insignificanti, cui lei consegna una dimensione inattesa. Questa attenzione alla concretezza degli oggetti dà al suo racconto una dimensione «materialista»…

Sono d’accordo. Mio padre era un rappresentante, un «viaggiatore di commercio», vedevo quanto lui tenesse alla sua macchina, al punto che se veniva a sapere che non c’erano parcheggi all’ombra nei luoghi dove era diretto rinunciava ad andare.
Quando scrissi il romanzo pensavo che questa ossessione di mio padre per la macchina fosse del tutto sua, ma poi moltissimi lettori mi hanno detto che per i loro padri era lo stesso: sembra che in Spagna, all’inizio degli anni settanta, trenta milioni di persone girassero in cerca di un posto all’ombra! Erano le loro prime conquiste materiali, da qui nasce il rilievo che acquista la coscienza di classe nel romanzo. I primi elettrodomestici, la prima macchina, le prime vacanze al mare, erano cose per le quali non esistevano nemmeno le parole, e che formano parte della mia vita interiore.

Lei ha anche un’attenzione molto speciale per quelli che chiama gli «abbandonati», i «desamparados», come il vecchio pugile, Perico Fernández, o lo zio Monte. Parlare di loro sembra volerli riscattare, salvarne la memoria. Qual è il nesso con la ricostruzione della società degli anni sessanta?
Nella città dove vivevamo, a Barbastro, mio padre aveva una specie di dono: tutti i disgraziati lo venivano a cercare, era una specie di magnete, forse perché esibiva una bontà naturale. All’epoca non lo capivo, ma poi quando ho scritto di Perico Fernández, il pugile che si aggirava per le strade di Saragozza come un uomo perduto, cosa che capitò anche a mio zio, mi sono ricordato della attenzione di mio padre per questo tipo di uomini e mi sembra che tutto abbia avuto origine da lui.

Nelle sue pagine la morte, la scomparsa del corpo, la fine di una certa gestualità, la chiusura degli spazi abitati dalle persone scomparse hanno un posto molto concreto e al tempo stesso acquisiscono una dimensione quasi barocca.
Anche qui, qualcosa di molto personale. Quando vidi invecchiare mia madre, notai come lei si arrabbiasse con il suo corpo, cominciò a cercare medici, psichiatri, ogni tipo di soluzioni a qualcosa di naturale e al tempo stesso terribile. Nella sua semplicità, mia madre non poteva accettare che la natura la stesse abbandonando, quella natura era Dio stesso, la vita per la quale aveva provato tanta passione, ora la stava tradendo. Io la guardavo e pensavo che avremmo dovuto accettare la vecchiaia per non impazzire, ma poi capii che mia madre aveva in parte ragione: invecchiare implica il fatto che poco a poco tutto ti abbandona. Il romanzo vorrebbe servire a ricordare il collante fra i vivi e i morti quel li unisce in un modo misterioso, che ha a che vedere con la condizione umana.