Per chi ami le ricerche erudite non esiste luogo più adatto dell’Archivio di Stato di Mantova. Una sala confortevole, personale cortese e preparato, ricchi sussidi bibliografici, materiali messi a disposizione con generosità e in tempi brevi. E per Mantova sono transitati tutti i maggiori ingegni artistici e letterari dell’Umanesimo e del Rinascimento, partendo da Petrarca per arrivare ad Angelo Poliziano e Andrea Mantegna, passando attraverso Vittorino da Feltre e Leon Battista Alberti. Basterebbe questo per invogliare lo studioso a prendere in mano gli inventari di sala dell’Archivio e setacciare i vastissimi carteggi Gonzaga, nella speranza di trovare qualche preziosa lettera inedita, qualche frammento che illumini la genesi di capolavori artistici o architettonici della Corte o tracci il percorso di preziosi testi classici o romanzi, depositati, per intervalli più o meno lunghi, sugli scaffali dei Marchesi. Ma l’operazione rischierebbe di assumere l’aspetto della trouvaille estemporanea, soddisfatta solo di se stessa e della pesca miracolosa, finendo con lo sciupare la tessera dorata che, per essere valorizzata, esige un contesto storico culturale più ampio, adatto a comprenderne appieno il significato. Un contesto da ricostruire mediante lunghe e pazienti ricerche di corredo, dalle quali emergano profili di funzionari minori e minimi che di questa splendida corte costituirono, per così dire, il tessuto connettivo. Per tenere assieme le fila di un trama tanto complessa, che a ogni passo manifesta riottose tendenze centrifughe, occorrono lucidità e sangue freddo: altrimenti si rischia la confusione babelica delle carte o, peggio, una crisi depressiva dinanzi alla mole di documenti da schedare, riordinare, interpretare.
Un patrimonio messo a rischio
Può dunque sembrare paradossale che Andrea Canova abbia scelto il titolo Dispersioni per consegnare a un quadro nitido e lineare la sua raccolta di documenti storico-letterari sulla Mantova tre-quattrocentesca (Dispersioni Cultura letteraria a Mantova tra Medioevo e Rinascimento, Officina Libraria, pp. 272, € 24,90). Perché se il titolo punta «un patrimonio a serio pericolo di disgregazione» contro la «memoria selettiva concentrata su pochi giacimenti a ritorno economico sicuro», di fatto il volume restituisce, sistematizzato, un corpus imponente di schede raccolte nel corso di quasi trent’anni di lavoro, esorcizzando la tendenza al saccheggio estemporaneo a vantaggio di una ricerca che cammina, lentamente, sulle gambe dell’erudizione e della filologia. Ne emerge una serie di quadri disposti in ordine moderatamente cronologico su cui si innestano campate monografiche dedicate alla fortuna di auctores classici (Virgilio, Plinio, Livio) e romanzi, di cultura latina e volgare. Il volume si divide in due sezioni portanti: la prima narrativa, il Quaderno, la seconda erudita, Testi e documenti. Il progetto è chiarito sin dalle prime righe: «il ruolo di Petrarca, la dialettica tra latino e volgare, il ruolo della Corte, quello (ancora sfuggente) della Chiesa». Se, dilettanti, cercate Vittorino da Feltre o Isabella d’Este, cambiate libro. Vittorino «non precipitò all’improvviso in una zona desertica». Isabella resta sul limitare. Ci si occupa del resto, che è già molto.
E pare bene muovere proprio dai classici, cioè, per Mantova, da Virgilio (e dal compianto classicista mantovano Giorgio Bernardi Perini, più volte ricordato da Canova). Un testo ricercato dai Gonzaga con scrupolo filologico: nel 1459 il marchese Ludovico ne chiedeva all’umanista Bartolomeo Platina una copia correttissima «cum li diphtonghi destesi, cioè ae, oe». Voleva, Ludovico, un testo prodotto secondo la norma ortografica più aggiornata, quella che usiamo noi nelle nostre edizioni scolastiche, codificata e consacrata dai manuali di grammatica dei principi dell’Umanesimo. Ma quel codice alimentò forse la perizia filologica di un altro umanista agguerrito e litigiosissimo, transitato per breve tempo alla corte dei Gonzaga: l’alessandrino Giorgio Merula. Dotto di latino e greco, il Merula produsse di lì a breve le sue Emendationes Virgilii che convogliano la discussione di loci difficiliores su fatti eminentemente ortografici. E allora sorgerà il sospetto che il «Virgilianum codicem» chiesto dal Merula al Marchese nell’estate del 1464 possa essere proprio il codice dittongato. L’intera vicenda è seguita passo passo da Canova con corredo di preziosissime lettere inedite del Merula, estratte per la prima volta dall’Archivio Gonzaga e valorizzate con il consueto understatement («non mi pare di aver visto citata altrove…», anche questa è una lezione di metodo). Ma Virgilio non significava solo erudizione. Ecco, quarant’anni dopo (lettera del novembre 1507), un altro sanguigno umanista, Battista Fiera, rivendicare presso il marchese Francesco Gonzaga le proprie benemerenze ottenute verosimilmente «legendo, como è mio costume, Virgilio dopo il pranso». La caduta rispetto al Merula è notevole, eppure anche il Fiera imboccava a modo suo la strada impervia della filologia, come certifica la provvida scheda bibliografica recuperata da Canova in nota: un «Vergilio apostilà de man del predetto messer Baptista», cioè una copia di Virgilio annotata dal Fiera, registrata nell’inventario post mortem dei suoi libri.
Un curioso funzionario di corte
Da Virgilio a Plinio, che Francesco Petrarca, in uno dei suoi ripetuti passaggi mantovani, acquistò nel luglio del 1350 (oggi ms. Parigino lat. 6802): il codice gli fu forse procurato dal curioso funzionario di corte Andrea da Goito, cultore di buoni libri ed epistolografo dal latino proteiforme (ma la consuetudine con i classici datava al Duecento del notaio Vivaldo Belcalzer, opportunamente ricordato da Canova e su cui rimando alle recenti scoperte di Nello Bertoletti, Una raccolta di volgarizzamenti di Vivaldo Belcalzer, in «Lingua e Stile», LII, 2017). Petrarca mediò l’ingresso dei Gonzaga nel viridarium dell’Umanesimo con innesti episodici ma intelligenti, prima accompagnando una copia del Roman de la Rose per Guido Gonzaga con l’invito a volgersi ai grandi latini (Metrica III, 30), poi raggiungendo a Mantova l’imperatore Carlo IV in un gelido dicembre del 1354 e portandogli in dono monete che raffiguravano gli antichi imperatori: monito e stimolo «a una condotta degna di quei modelli». Sono episodi che lasciarono il segno e avviarono il culto del Petrarca presso i posteri mantovani: uno dei testimoni più interessanti dell’Africa, fu copiato dallo scriba e picerna (‘magazziniere’) gonzaghesco Ramo Ramedelli (1398) cui si deve anche uno zibaldone ricco di ogni sorta di rarità, tra le quali l’unicum dell’epistola del Boccaccio a Donato Albanzani (1365).
Da Petrarca e dal nascente Umanesimo è tempo di scendere, a perdifiato, verso la chiusa del Quattrocento. Anche qui il percorso è costellato di annotazioni su tardi verseggiatori latini (dal maestro Marcantonio Aldegatti al più noto Battista Spagnoli, «Christianus Maro») che si alternano a brevi soste su rimatori volgari; e basti per tutti Zaccaria Saggi, funzionario a turno di Ludovico, Federico e Francesco Gonzaga, di cui resta, oltre ad alcuni sonetti, un interessantissimo manipolo di lettere. Il Saggi «assistette da vicino ai primi passi della tipografia mantovana» ospitando in casa propria i due stampatori tedeschi Georg di Augusta e Paul Butzbach: anche qui si debbono a Canova alcuni acquisti importanti, come la distinzione dei due tipografi a lungo ed erroneamente creduti fratelli, o il rinvenimento del ricco inventario di bottega di Domenico Siliprandi, tipografo anch’egli, attivo col fratello Alvise tra Mantova, Padova e Venezia. Tutto accuratamente edito e chiosato, e generosamente offerto alla curiosità del lettore.