«Il tre marzo, il giorno del mio compleanno, eravamo a casa nostra in Uganda (dove lavoravano al film G.O.M.A. ndr), e mentre ricevevo gli auguri da parte della famiglia, Mantas ha letto la notizia dell’attacco a Mariupol. Proprio in quei giorni, aveva manifestato l’intenzione di riprendere i filmati inutilizzati del suo film Mariupolis per farne un nuovo montaggio. Alla luce di quanto stava accadendo, gli tornarono in mente le persone conosciute sia durante le riprese al Teatro Mariupol che nella comunità greca locale. Parlandone assieme mi disse: «Voglio tornare per girare la seconda parte di Mariupolis. Lo guardai e risposi che sarei andata con lui».

Hanna Bilobrova, attrice e compagna del regista e antropologo lituano Mantas Kvedaravicius, così inizia il racconto del loro ritorno nella città ucraina poco prima della proiezione della pellicola, girata nel 2015, programmata il 12 maggio al Cine-Teatro Centrale di Carbonia, in occasione dell’annuale edizione dell’ «How To Film World» presentato dal Carbonia Film Festival. La rassegna ha aperto i battenti con la Bilobrova che oltre ad introdurre Mariupolis, nonostante le ben comprensibili difficoltà, è entrata nel dettaglio della tragica vicenda che ha portato alla scomparsa di Kvedaravicius: «Abbiamo compreso da subito che c’era il rischio di non tornare. Rientrati in Lituania, ci siamo diretti in macchina verso il confine ucraino. Lungo il percorso, abbiamo raccolto medicine, cibo e acqua da portare con noi. Perché il viaggio non aveva il solo scopo di filmare: volevamo anche aiutare le persone sotto assedio. Il programma prevedeva di arrivare al Teatro di Mariupol, perché significava molto per Mantas. È lì che iniziò a girare Mariupolis e dallo stesso posto avrebbe voluto ripartire per il nuovo film. Ma all’arrivo a Dnipro siamo venuti a sapere che il teatro era stato bombardato e completamente distrutto. La notizia fu devastante, ma speravamo comunque di riuscire a raggiungere le persone ancora vive. Purtroppo, giunti a Mariupol, a causa dei bombardamenti non siamo riusciti ad arrivarci. Così abbiamo deciso di alloggiare in una chiesa battista vicino all’acciaieria Azovstal, in un seminterrato che fungeva da ricovero per i cittadini. Non potevamo spostarci e rimanemmo fino al ventisei marzo, facendo parte delle comunità di persone che si erano lì rifugiate, e che ci permisero di filmarle».

Pur se scossa dalla crudezza della situazione, la Bilobrova prosegue nella sua narrazione: «I soldati russi avevano portato via la nostra automobile, ma salendo sulla macchina di un altro volontario, che ci conosceva dal precedente viaggio a Mariupol, abbiamo deciso di spostarci in una zona più tranquilla della città. Il suo compito era di raccogliere delle famiglie il giorno successivo. Il ventisette marzo, a Mantas è stato chiesto di dare aiutare nel radunare le persone e lui ha accettato, rifiutando la mia proposta di andare insieme. Dopodiché, gli ho chiesto di coprirmi le gambe con la giacca, mi ha baciato e se ne è andato. Il ventotto marzo l’autista è tornato senza Mantas e mi ha detto che erano stati catturati e trattenuti dall’esercito russo. Avevano scoperto che lui era cittadino lituano e lo tenevano imprigionato… Ho cercato Mantas per cinque giorni in prima linea, sotto il fuoco della battaglia. Fino a quando il capo dei russi separatisti del quartiere mi ha informato che era stato ucciso. Per effettuare il riconoscimento del suo corpo mi hanno fatto aspettare due giorni. Nel frattempo, continuavo a cercarlo anche tra i vivi. Alla fine, sono stati i soldati a portarmi dove Mantas giaceva a terra. Sapevano esattamente dove fosse, chi ero io e cosa stavo cercando. Mi hanno dato il suo corpo, indicandomelo con un gesto.. .Non mi hanno permesso né di toccarlo né di abbracciarlo a terra.. .c’era un soldato a trattenermi».

Drammatico e rischioso è stato anche il rimpatrio della salma, avvenuto attraverso l’uso di un aereo militare divenuto tristemente noto ai tempi del conflitto tra URSS e Afghanistan in quanto utilizzato per i soldati sovietici morti in guerra: «Ho portato il corpo di Mantas con il Cargo 200, ma come civile, a Donetsk. Sono stato fortunata ad andare lì con quel volo perché era la città più vicina e vista la situazione, non potevo fare altrimenti, né tantomeno chiedere aiuto via telefono. Arrivata a Donetsk, nonostante nessuno potesse aiutarmi, sono riuscita a trovare una soluzione per spostare il suo corpo in un altro obitorio con un frigorifero, per poi trasportarlo attraverso la Russia fino alla Lituania. Rischiando di essere catturata in strada, perché nel frattempo era circolata la falsa notizia che Mantas fosse morto durante un’esplosione ’con una macchina fotografica in mano’ e questo poteva divenire fonte di pericolo. Ho raccolto Mantas il primo aprile e abbiamo raggiunto la Lituania il cinque. Eppure era stato ucciso il trenta marzo. Insieme alle sue spoglie, ho preso i backup dei filmati che avevamo girato e li ho portati in Lituania».

Il regista, una volta presa la decisione di tornare a Mariupolis, aveva chiesto esplicitamente ad Hanna Bilobrova di proseguire il suo lavoro, se mai gli fosse accaduto qualcosa. Impegno che la compagna ha rispettato in pieno, lavorando a Mariupolis 2 assieme alla montatrice Dounia Sichov. La pellicola, presentata nei giorni scorsi al festival di Cannes, è palese manifesto dello stile di Kvedaravicius: «Il primo film è stato dedicato ai poeti e calzolai di quella città. Con Mariupolis 2, era chiaro che non eravamo lì per filmare lo spargimento di sangue: Mantas non era attratto da questo, ma da come vive la gente. Al modo in cui la guerra annienta passato, futuro e giudizio, e come le persone si aiutano a vicenda e fumano e chiacchierano anche se stanno cadendo delle bombe. La morte è già lì, quindi nessuno la teme. Mantas era interessato alla materialità e all’importanza dei gesti quotidiani che persistono nonostante la guerra».

L’intensità della storia personale e pubblica del duo Kvedaravicius-Bilobrova è stato uno degli apici dell’ «How To Film World», che in questa edizione dedicata alla narrazione della contemporaneità in mutamento, ha centrato la propria attenzione sul ruolo degli artisti nelle società dittatoriali e nei conflitti scaturiti. Nel cartellone in scena dal dodici al quindici maggio, oltre l’Ucraina, sono stati ampiamente protagonisti Siria ed Afghanistan. La proiezione di Republic of Silence di Diana El Jeiroudi, pellicola incentrata sui drammi vissuti nella terra di Damasco e sulla rimozione della memoria visiva, ha permesso al pubblico di incontrare l’autrice ed il produttore Orwa Nyrabia, che rammentiamo essere il direttore del festival IDFA di Amsterdam. Proprio Nyrabia, con un passaggio efficace e incisivo nel suo discorso, ha ricordato di come i regimi dittatoriali abbiano «più paura di una persona che imbraccia una telecamera invece di un fucile». Significativo anche l’impatto avuto da The Orphanage dell’autrice afghana Shahrbanoo Sadat che dall’arrivo dei talebani nell’agosto 2021 ha abbandonato Kabul.