Il sentiero è stretto, aveva detto il ministro Padoan. Sta di fatto che per quel sentiero sono passate un po’ tutte le varie lobbies che da sempre influiscono sulla manovra finanziaria. Non è un caso che la Presidenza della Camera abbia approntato un locale apposito e bene attrezzato a Montecitorio per i lobbisti, per evitare imbarazzanti via vai nei corridoi prospicienti le commissioni di merito.

Così una legge partita con 80 articoli, si è trasformata rapidamente in una di 120; poi, con la fiducia, in un articolo unico di 700 commi, per approdare ai finali 1.247 votati definitivamente ieri al Senato in terza lettura. L’entità della manovra è lievitata ai 27,8 miliardi di euro.

Più della metà, 15,7 miliardi, servono per evitare che l’Iva aumenti al 25% dal 1 gennaio dell’anno entrante.

Ma il problema non è risolto, solo rinviato. Se non si trovano le risorse necessarie, l’aumento dell’Iva, che deprimerebbe ancora di più i consumi e quindi la domanda interna, scatterebbe comunque dal primo giorno del 2019. Quindi il governo che verrà dopo le elezioni di marzo, dovrà nel Def di aprile trovare i 12,5 miliardi necessari per allontanare lo spauracchio dell’aumento delle imposte indirette. Ma c’è un’altra spada di Damocle sulla nostra testa. Gli arcigni controllori dei conti di Bruxelles non sono affatto convinti che la manovra della scorsa primavera sia andata bene. Quindi ne pretendono un’altra per almeno 3,4 miliardi.

Non solo, ma la via d’uscita delle privatizzazioni appare poco credibile, non essendo rimasto moltissimo da vendere che sia appetibile per il mercato privato. Quindi la quota prevista è già stata ridotta di un decimale di punto, dallo 0,3 allo 0,2%.

Non c’è da stupirsi se gli organismi internazionali sono inquieti e pare che già siano giunti a Roma ispettori del Fmi per dare un’occhiata più da vicino ai nostri conti. I tweet di Gentiloni che invocano fiducia per l’Italia e parlano di crescita sono accolti con molta diffidenza là dove si decide. La Renzinomics non brilla.

La manovra di bilancio fa a pugni con la realtà di disoccupazione di massa, particolarmente tra i giovani e le donne, di aumento delle povertà, della ulteriore penalizzazione del Mezzogiorno, ove il dramma dell’Ilva assurge a paradigma della distruzione del territorio e della salute, del fallimento di una politica industriale e di coesione sociale. Nella manovra quanto può essere ascritto – si fa per dire – all’economia reale e allo sviluppo non supera i 5,5 miliardi. C’è il finanziamento del contratto del pubblico impiego, dopo quasi un decennio di blocco: un aumento di 85 euro mensili lordi, non c’è da scialare per chi ha atteso così tanto. La decontribuzione del 50% per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato, viene decisa quando già – come ci ha rivelato il rapporto integrato sul mercato del lavoro presentato pochi giorni fa a Palazzo Chigi – i padroni hanno fatto il pieno di assunzioni precarie, sfruttando il famigerato decreto Poletti dell’inizio del governo Renzi. Invece è sparita la riduzione da 36 a 24 mesi degli stessi contratti, come pure l’aumento della indennità di disoccupazione per i licenziamenti deprivati della tutela dell’articolo 18.

Misure invocate dallo stesso Presidente dell’Inps Tito Boeri e riprese anche da parlamentari Pd, ma per essere subito abbandonate. Quindi non si vede, rimanendo intatta l’attuale normativa sui contratti a termine e sul costo dei licenziamenti, quale sia la convenienza reale all’assunzione con contratti permanenti. Se lo si fa, dopo tre anni di decontribuzione, ci si può liberare del lavoratore senza eccessivi costi. Il resto della manovra è costituito dalla proroga dei superammortamenti per chi investe in robot e nuove tecnologie. Ossia per l’implementazione del famoso piano di Industria 4.0.

Che, in un quadro di assenza di tutele e di modeste monetarizzazioni delle medesime, rischia di falcidiare l’occupazione, più di quanto non avvenga in virtù del salto tecnologico che contrappone lavoro morto, quello delle macchine, a lavoro vivo, quello delle donne e degli uomini in carne, ossa e diritti. Poi c’è la solita pletora di misure distribuite ad hoc per creare consenso elettorale, e perciò lievitate essendo alla fine della legislatura. Il ricorso ai bonus diventa ipertrofico, se ne contano 21, mentre si moltiplicano le detrazioni fiscali.

Sono premiate anche le coltivazioni di piante da cucina sui terrazzi privati.

Ma attenzione: non la cannabis. Ai pensionati è stata sbattuta la porta in faccia sul congelamento della crescita dell’età pensionabile, curandosi solo di dividere il fronte sindacale. Come è puntualmente avvenuto.

Intanto i giganti del web se la ridono. La famosa webtax è stata dimezzata dal 6 al 3% e si applicherà solo a chi effettua più di tremila transizioni di servizi all’anno. Invece lo ius soli non si fa. Come dire: guai ai vinti!