«Non ci sarà nessuna manovra correttiva». Il rassicurante tam tam, fatto partire dal governo subito dopo il preavviso della lettera Ue effettivamente arrivata solo ieri, ha impazzato anche ieri. Questione terminologica, non di sostanza. Quei 3 miliardi e 400 milioni, pari a 0,2 punti di Pil, il governo sa perfettamente di doverli cacciare. Che la si chiami o meno manovra la realtà non cambia. La lettera chiede appunto quella cifra e sia pur con qualche cortesia formale, la reclama in modo ultimativo.

Parlare di ultimatum non è esagerato. La Ue vuole una risposta «pubblica», comprensiva di «un pacchetto sufficientemente dettagliato di impegni specifici e un calendario chiaro per una loro adozione legale rapida». E la vuole subito: «Entro l’ultima data utile per le previsioni economiche invernali della Commissione, fissata per il primo febbraio».

A palazzo Chigi e al Ministero dell’Economia la missiva è stata presa malissimo. La replica del Mef trasuda orgoglio e irritazione: «La stabilizzazione nel rapporto debito/Pil è un risultato straordinario». I risultati insoddisfacenti in termini di riduzione del debito sono dovuti «alla situazione di perdurante e per certi versi accresciuta incertezza a livello europeo e internazionale» e ai «livelli eccessivamente bassi di inflazione». Tutti fattori che esulano dalla responsabilità del governo italiano, di questo come di quello precedente.

In modo informale il governo fa anche filtrare tutto il proprio disappunto. Definisce il diktat «surreale». Ricorda che in un momento simile, con la Gran Bretagna decisa a scegliere il modello di Brexit più brusco possibile e Trump all’attacco, prendere di mira l’Italia per pochi decimali è assurdo. In realtà quella dell’Unione europea era una mossa ampiamente annunciata. La richiesta di correzione, rinviata per non danneggiare Matteo Renzi prima del referendum del 4 dicembre, sarebbe arrivata comunque, anche qualora le riforme promesse dal governo in cambio della flessibilità fossero state approvate. Ma i toni sarebbero stati diversi, l’ordine sarebbe suonato meno brutale, il pugno di ferro sarebbe stato rivestito di velluto.

Qui invece tornano gli umori della famosa lettera inviata nell’estate del 2011, quella che portò alla caduta del governo Berlusconi e a quella specie di commissariamento di fatto che fu il governo Monti.

Gentiloni e Padoan cercheranno di trattare, e il presidente del consiglio lo farà già oggi, nel colloquio a Berlino con Angela Merkel. Tenteranno di spostare ad aprile il momento della verità e di limare la cifra richiesta. In patria spargeranno rassicurazioni semantiche spiegando che si tratta non di una manovra ma solo di una «correzione del Def». Cosa correggere, però, ancora non lo sa nessuno e le poche voci ipotetiche che partono dal Mef sono poco significative: «risparmi», «interventi sui bonus fiscali». Se non sono proprio parole in libertà ci vanno però molto vicino: a Roma tutti sanno che il problema di Bruxelles non sono tanto quei due decimali quanto una richiesta, non esplicita ma ugualmente palese, di interventi strutturali sulla manovra.

Sarà questo il versante più delicato della trattativa dei prossimi giorni, che dovrà però concludersi comunque nel giro di un paio di settimane e sulla quale peserà la minaccia, tutt’altro che fantascientifica, di un secondo richiamo a stretto giro sul salvataggio delle banche.

Che il clima sia tra i peggiori è dimostrato non solo dai toni dell’ultimatum recapitato ieri ma anche dalla durezza estrema e inusuale con cui la Germania, pienamente spalleggiata dalla Commissione Ue, ha mosso il suo attacco a Fca, chiedendo il ritiro di tre modelli sospetti di violare le regole europee in materia di emissioni.

Sarà questo, non la manovra correttiva, il primo capitolo in agenda nell’incontro di oggi tra il presidente del consiglio italiano e la cancelliera tedesca. Gentiloni si mostrerà conciliante sul fronte dei conti pubblici, pur chiedendo qualche concessione sia in termini di tempo che di cifre. Sarà invece rigido sul fronte Fiat Chrysler. Certo non andrà giù con la stessa pesantezza del ministro Carlo Calenda, che in pieno stile renziano ha risposto ai tedeschi invitandoli a occuparsi della Volkswagen, ma sia pur in stile felpato anche lui dirà a Frau Merkel che Fca non si tocca e che insistere su questo piano significherebbe violare i diritti di uno Stato sovrano. I test della Germania, sosterrà, non hanno alcun valore probante, e oltre tutto il verdetto tedesco è ben più severo di quello iniziale degli Usa, da dove era partito il «dieselgate». L’omologazione, ricorderà, spetta ai singoli Stati ed è insindacabile.

L’esito del colloquio, che dovrà anche almeno sfiorare un ulteriore capitolo bollente, quello dell’immigrazione, sarà essenziale non solo nel merito del braccio di ferro ma anche per capire quanto pericolante sia nei fatti la situazione dell’Italia nei rapporti con l’Europa.