Difficile credere a una coincidenza, ma anche se lo fosse cambierebbe ben poco. L’uscita corale della Troika al gran completo ha le sembianze di un’offensiva concentrica e coordinata. Ancora solo un monito, ma amplificato e reso particolarmente minaccioso dalla contemporaneità delle dichiarazioni e dal livello apicale di chi scende in campo.

PER LA BCE A FARLO è Mario Draghi in persona, da Bali, dove sono riunite le assemblee annuali dell’Fmi/Banca mondiale. E’ l’unico a non citare apertamente l’Italia ma sul riferimento non sono possibili dubbi: «Per i Paesi ad alto debito è di particolare importanza la piena adesione al Patto di Stabilità». Per l’Fmi si esprime Poul Thomsen, capo del dipartimento europeo, anche lui presente a Bali, ed è esplicito: la manovra italiana «va in direzione opposta ai suggerimenti del Fondo. Non è il momento di allentare». La commissione Ue era stata la prima ad aprire il fuoco, con un’intervista di Juncker che campeggiava su Le Monde sin dal mattino: l’Italia «non rispetta la parola data» e il governo «non dovrebbe mettere in pericolo la solidarietà europea». Tre voci, una conclusione univoca: se non torna sui propri passi l’Italia è in area di massimo rischio.

Il terreno era stato dissodato, nella serata di giovedì, da una raffica di dichiarazioni anonime di funzionari della Bce. In cinque avevano ripetuto alla Reuters che se l’Italia finirà in guai grossi la banca centrale non potrà aiutarla «senza una precisa richiesta». Fuor di metafora senza un commissariamento modello Grecia. La raffica non si esaurirà così. Al prossimo consiglio europeo saranno i capi di Stato a martellare sullo stesso punto. Certo, non mancheranno di ascoltare le ragioni del premier Giuseppe Conte, noblesse oblige. Ma il verdetto, prima ancora che la manovra sia pronta, è già scritto anche se resta difficile che la commissione scelga la via estrema del rinvio. Più probabilmente ricorrerà alla classica lettera, ma con tali e tante richieste di modifica da somigliare a un rinvio in tutto tranne che nella forma.

CERTO, IL COLLOQUIO A BALI fra Tria e Moscovici, ministri dell’Economia dell’Italia l’uno, della commissione Ue l’altro, è stato sereno e disteso. Ma nei confronti di Tria non c’è tensione a Bruxelles: tutti sanno che, se fosse stato per lui, la «parola» italiana sarebbe stata non rispettata ma violata di pochi decimali. Il ministro comunque fa il possibile per allentare la tensione: «Tutto si svolge nel quadro della legalità europea. I trattati dicono deficit al 3% e noi siamo al di sotto. Vedremo di spiegare scelte che sono a favore della crescita». Si sforza di raffreddare la temperatura anche il governatore di Bankitalia Ignazio Visco: «Ci sono interesse e attenzione ma non preoccupazione. Certo quello che viene deciso sulle politiche di bilancio e ciò che avviene nell’economia reale si legge con molta cura».

A ROMA PERÒ I TONI sono molto meno lievi, e tutt’altro che sdrammatizzanti. Di Maio ironizza: «Ci manca solo l’intervento della Nasa». Salvini polemizza: «Juncker pensi al suo paradiso fiscale». Dal Sudamerica Di Battista aggiunge il suo ramoscello d’ulivo: «L’Fmi? E’ una banca che presta a strozzo». Ma non è questione di parole più o meno pesanti. Quello che gli assedianti si aspettano sono passi indietro concreti nella legge di bilancio: solo quelli sortirebbero risultati sulla disposizione della Troika e probabilmente, di riflesso, renderebbero più facili le cose anche con le agenzie di rating. Ma quei passi indietro, reclamati soprattutto per non dire esclusivamente sul fronte della Fornero, non ci saranno, salvo improbabilissime sorprese. Ma bisognerà aspettare: la manovra non sarà approvata dal consiglio dei ministri lunedì, servirà qualche giorno in più. Rispetto al progetto iniziale l’intervento sulla Fornero è stato un po’ ridimensionato. Restano i 62 anni d’età e 38 di contributi ma anche salendo con l’età gli anni di contribuzione non varieranno, mentre Salvini sognava di arrivare addirittura a un tetto 65-35. La riforma entrerà in vigore con le classiche finestre: chi matura i requisiti entro la fine di dicembre potrà andare in pensione all’inizio di aprile e così via di finestra in finestra.

QUEST’ULTIMA DECISIONE, però, è dovuta all’esigenza di far quadrare conti che sono ancora in alto mare con le cifre a disposizione, deficit incluso, e non ha alcuna possibilità di rabbonire le istituzioni europee e finanziarie. Dovrebbe anche raddoppiare il personale Inps, con il compito di «sorvegliare» sia l’andamento delle pensioni che del reddito di cittadinanza, ma anche questo non calmerà l’ira europea. Lo scontro sembra davvero inevitabile.