Il Pd chiude la legislatura con una incredibile figura sul tema più delicato, quello del lavoro. Nel giorno in cui il Jobs act registra il primo calo nel numero dei contratti a tempo indeterminato e il record di quelli a termine – certificando il sostanziale fallimento della riforma che puntava sulla riduzione della precarietà – i due emendamenti più attesi alla legge di bilancio sono stati ritirati.

Il primo – proposto dalla neorenziana Chiara Gribaudo – proponeva la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima dei contratti a tempo determinato senza comunque reintrodurre la «causale» tolta dal decreto Poletti del 2014 e con un balletto sulla riduzione del numero di rinnovi che sembrava poter calare dagli attuali 5 a tre. Dopo una lunga gestazione per trovare la quadra politica all’interno del partito, tutto è saltato per la felicità di Confindustria. Il secondo – proposto da Cesare Damiano – prevedeva l’aumento delle indennità in caso di licenziamento. Era stata la risposta della minoranza Pd alla proposta della sinistra – sottoscritta da tutti i parlamentari del nascente Liberi e Uguali – di reintrodurre l’articolo 18: «Renderemo i licenziamenti più costosi per le aziende», era il mantra.

MA ARRIVATI AL DUNQUE – Damiano non è componente della commissione Bilancio è ha criticato «l’errore non di poco conto» e «la scelta miope» del governo – il Pd ha deciso di ritirare anche questo emendamento già previsto in una versione ridotta: le indennità non erano più raddoppiate da 4 a 8 mesi, ma solo a sei. A quel punto il M5S ha deciso di sottoscrivere l’emendamento del Pd ma al momento del voto la contrarietà del Pd ha prodotto la sua bocciatura.

«SIAMO DI FRONTE A dei volta gabbana – attacca il primo firmatario del disegno di legge sul ritorno dell’articolo 18 Giorgio Airaudo – . Hanno usato l’aumento delle indennità per non discutere la nostra proposta e poi sono stati costretti dal loro stesso partito a ritirare l’emendamento. In questo modo mentono ai lavoratori, bisognerà ricordarsene nelle urne».
Critiche anche dalla Cgil. «Quanto si sta decidendo in queste ore sui temi del lavoro è grave e conferma l’incapacità dell’esecutivo a mantenere gli impegni – commenta la segretaria confederale Tania Scacchetti – Entrambi gli emendamenti, seppur di valenza limitata, provavano a mettere in discussione l’impianto complessivo del Jobs act».

IL PASSAGGIO NELLA commissione Bilancio doveva essere migliorativo per la manovra. Invece il testo che esce – e che arriverà in aula per la fiducia come testo praticamente definitivo per la terza lettura al Senato – ha ricevuto critiche molto forti anche sulla sua più grande modifica: la nuova versione della cosiddetta web tax. L’imposta sulle transazioni digitali passa dal 6% al 3% e, diversamente da quanto ipotizzato all’inizio, non viene allargata al commercio con un gettito all’anno stimato in 190 milioni.

UNA VERSIONE FORTEMENTE criticata dal senatore del Pd e primo proponente della misura Massimo Mucchetti. «Invito formalmente il governo a rimediare al grave errore commesso. La norma colpisce in modo pesantissimo le imprese italiane del web dimezzando l’onere a carico delle multinazionali digitali, ammesso che a queste venga in concreto applicata l’imposta», attacca. Per Mucchetti siamo davanti al «gioco delle tre carte»: «Per gonfiare la base imponibile, si sono inseriti i ricavi di attività digitali (Data analytics, Cloud computing e i Sistemi di integrazione Ict). In tal modo la base imponibile è salita a 6,3 miliardi quando prima era stata indicata in 3,8 ed è stato possibile fare il miracolo: dimezzare l’aliquota e aumentare il gettito. In più – sottolinea il senatore del Pd – la soppressione delle norme che rafforzavano le attività di accertamento dell’Agenzia delle entrate per scoprire le “stabili organizzazioni” occulte. Infine l’emendamento affida alla notoria buona volontà delle imprese prestatrici dei servizi, basate a Dublino e a Lussemburgo (Google o Amazon, ndr), il compito di versare la tassa», conclude.

Il relatore Francesco Boccia aveva già in mattinata presentato un nuovo pacchetto di 11 emendamenti, tutti approvati. Si va dalla conferma anche per il 2018 del canone Rai a 90 euro all’anticipo dell’entrata in vigore delle nuove regole europee per la tracciabilità dei farmaci a provvedimento per lo snellimento della giustizia civile e penale.

MA IN SERATA LE lungaggini sulle votazioni avevano richiesto una capigruppo per riferire alla presidenza sullo slittamento dei tempi. Il Pd conta di approvare la fiducia sul testo finale giovedì. Ma il testo arriverà in aula solo questa sera alle 21.