Ora che la manovra è stata approvata bisognerà anche scriverla e se per il governo il varo è stato una via crucis l’obbligo di definire nei particolari le misure potrebbe rivelarsi anche più arduo. Nei giorni bollenti del voto al Senato gli alti ufficiali gialloverdi, travolti dall’entusiasmo, facevano trapelare l’impegno a varare quota 100, reddito di cittadinanza e aumento delle pensioni minime prima della befana. Per loro fortuna nessuno li aveva presi molto sul serio: che la signora sulla scopa infili davvero le strombazzatissime riforme nella calza è ben poco probabile.

ANCHE PER QUESTO la coppia di sciatori a cinque stelle, Di Maio e Di Battista, è corsa a rifugiarsi dietro l’ombrello sicuro della guerra santa contro i politici, promettendo il taglio dello stipendio dei parlamentari. Colto di sorpresa dall’estemporanea sortita, Salvini frena: «Ridurre gli sprechi è nel programma ma per la Lega le priorità degli italiani sono cose più concrete». Piccata, Paola Taverna replica che invece «non c’è niente di più concreto: è concreto come pane e Nutella». La baruffa, incidentalmente la prima dell’anno e certo non l’ultima, registra la tensione ormai fissa tra i soci della maggioranza, ma nel caso specifico la cosa più concreta, per i governati come per i governanti, è certamente vedere nero su bianco le misure cardine delle quali si discute e spesso anzi si chiacchiera da mesi.

IL TEMPO STRINGE. Non ci si può presentare alla riunione Ecofin del 22 gennaio senza aver specificato qual è la sostanza della manovra. Il verdetto europeo formalmente è solo sospeso e se ufficialmente l’unica cosa che riguarda Bruxelles sono i saldi è sin troppo evidente che lasciare nel vago le voci di spesa fino a oltre il 22 gennaio sarebbe il peggior viatico possibile per un anno già difficile. Inoltre bisogna rivedere un paio di voci rimaste in sospeso nelle ore caotiche dei voti di fiducia a raffica: lo stralcio delle norme sugli Ncc e soprattutto la revoca, con relativa sostituzione di introiti, dell’aumento dell’Ires sulle associazioni no-profit. Un passo inevitabile, quest’ultimo, dopo che il capo dello Stato, con il passaggio insolitamente esplicito contro la «tassa sulla bontà» nel discorso di fine anno ha chiuso ogni possibilità di retromarcia dall’impegno, assunto da Di Maio, di cancellare quel balzello.

IL DISCORSO DI MATTARELLA peserà però soprattutto perché il presidente ha chiarito che quel che è stato permesso in nome della necessità di evitare l’esercizio provvisorio, cioè l’esautoramento totale del Parlamento, non dovrà ripetersi quando le camere discuteranno la sostanza della manovra stessa. Vuol dire che il governo dovrà permettere a Camera e Senato di emendare i suoi decreti o forse i suoi ddl, non essendo ancora chiaro neppure se le norme in questione verranno o no varate per decreto. Soprattutto al Senato non sarà una passeggiata. Il governo, a palazzo Madama, vantava una maggioranza esigua, di appena 6 voti.

Dopo le due espulsioni dalle file dei senatori a cinque stelle sono scesi a 4 ma con due voti, quelli delle senatrici 5S dissidenti Paola Nugnes e Elena Fattori, tutt’altro che blindati. Il voto di fiducia renderebbe il rischio minimo ma significherebbe sfidare il Colle. L’iter normale, con la prevedibile pioggia di emendamenti, comporterebbe in compenso il rischio di qualche brutta sorpresa in questo o quel voto. Il quadro è anche meno roseo per quanto riguarda uno dei fiori all’occhiello della Lega, la legge sulla legittima difesa già approvata alla Camera. Proprio quel provvedimento è infatti uno dei più osteggiati dai senatori dissidenti dell’M5S: i due già messi alla porta, le due a rischio di cacciata più altri quattro o cinque vicini al presidente della Camera Roberto Fico.

AL PACCHETTO BISOGNA aggiungere, una volta superate le rapide di quota 100 e del «reddito», la conversione del decreto semplificazioni, accluso alla manovra, e poi la legge sulle autonomie, che per la Lega è un obiettivo non trattabile mentre per i 5S, con base elettorale forte soprattutto al sud, è molto meno appetibile. I primi mesi del 2019, per il governo, non saranno più facili degli ultimi del 2018.