Per essere «il governo dei migliori» l’esecutivo Draghi sta inanellando figuracce sulla legge di Bilancio. Non bastasse la settimana di ritardo nella consegna della legge al parlamento, ieri per tutta la mattinata palazzo Chigi ha evocato un ritorno del provvedimento in consiglio dei ministri. Sarebbe stata una «prima volta» assoluta e imbarazzante che smentiva il trionfalismo della conferenza stampa tenuta da Draghi e Franco il 28 ottobre con l’annuncio dell’«applauso del consiglio dei ministri al momento dell’approvazione», domani saranno due settimane esatte.

SE QUALCHE GIORNO di ritardo fra l’approvazione e il deposito è normale per una legge così complessa che prevede la cosiddetta «bollinatura» di ogni spesa da parte della Ragioneria generale e un controllo non formale del presidente della Repubblica, mai si era raggiunto questo ritardo. Le divisioni nella maggioranza su molti punti non spiegano totalmente il problema: Draghi ha già dimostrato più volte di decidere da solo. In questo caso ci sono proprie e vere mancanze da parte del ministro dell’Economia, dato come papabile prossimo premier se Draghi sarà eletto al Quirinale.

PROPRIO I TROPPI PUNTI APERTI – destinazione del bonus «taglio delle tasse» da 8 miliardi, modifiche del Reddito di cittadinanza chieste dalla destra, pensioni, bonus 110% più semplice chiesto dal M5s – stavano alimentando le richieste dei partiti. Vista la malapartita, nel pomeriggio palazzo Chigi ha fatto marcia indietro: «Niente ritorno della manovra in Consiglio».
L’unico ministro a parlare sul tema è Renato Brunetta, ormai vero agiografo di Draghi. «Sulla manovra abbiamo preso le nostre decisioni nell’ultima riunione del consiglio dei ministri: ci sono stati dei completamenti ma in linea con decisioni già prese in quella occasione», ha detto dalla presentazione di un libro sul premier.

IN MATTINATA COMUNQUE l’ennesima «cabina di regia» aveva deciso alcune modifiche al testo. «Saranno inserite come si deve fare e sempre si fa nell’ambito delle modifiche e completamenti che sempre vengono decisi in Cdm», ha spiegato ancora Brunetta.

Al Senato la manovra dovrebbe dunque arrivare domani o venerdì, ma nessuno ci mette la mano sul fuoco.
L’impianto del reddito di cittadinanza, al centro del confronto, viene confermato: decalage a partire dal primo rifiuto di «un’offerta di lavoro congrua» (vedremo cosa significherà), mentre scatta lo stop all’assegno dal secondo no (finora la sospensione partiva dal terzo rifiuto). Cambia invece «opzione donna» rispetto a quanto stabilito in Cdm: per lo strumento che manda in pensione le donne con 35 anni di contributi e il ricalcolo totalmente contributivo – taglio almeno del 30% – la soglia anagrafica dai 60 anni inizialmente previsti viene riportata a 58 per le dipendenti e a 59 per le autonome. Da notare che la sterilizzazione di una evidente «porcata» a danno delle donne avverrà senza alcun aumento di risorse – per le pensioni rimangono 611 milioni per il 2022 – a conferma che le stime della Ragioneria in fatto di previdenza sono sempre restrittive.

SUL TEMA PENSIONI ieri i sindacati hanno apprezzato le dichiarazioni del ministro Orlando – «ci sono tutte le condizioni perché sulle pensioni si apra un confronto che affronti in modo strutturale alcuni dei problemi posti» – sebbene lamentando il ritardo rispetto alla richiesta fatta in primavera. «Se l’intento fosse quello di rinviare tutto al prossimo anno – attaccca però il segretario confederale Cgil Roberto Ghiselli – si sappia sin d’ora che per noi sarebbe una prospettiva inaccettabile».

Tra i temi ancora aperti c’è sicuramente il superbonus al 110% con il limite Isee a 25.000 euro per le villette unifamiliari che il M5s vorrebbe eliminare. Altra proposta regressiva arriva dalla Lega: «allargamento della flat tax al 15% per partite Iva, autonomi e piccoli imprenditori fino a 100mila euro di fatturato».

Probabile che il governo su questi nodi lasci decidere al parlamento anche al momento del «parere» obbligatorio in fase di votazione. Di certo il rischio che con i tempi ristretti si ripeta quanto accadde l’anno scorso è reale: la legge di bilancio esaminata solo da un ramo (Camera l’anno scorso, Senato quest’anno) e approvata senza modifiche dall’altra.