La manovra vera la commissione Bilancio del Senato, riunita proprio per emendarla, non la vedrà mai. Arriverà direttamente in aula, la settimana prossima, e a quel punto, con i tempi strettissimi, sarà questione di prendere o lasciare. Il voto di fiducia, che il governo prometteva di usare con parsimonia e che invece è già di nuovo uso quotidiano, sarà probabilmente inevitabile. Resta però da capire come il governo pensi di aggirare la necessità di sottoporre al vaglio di entrambe le camere una nota di variazione del Def, essendo quella varata alla fine di settembre in tutta evidenza carta straccia.

I NUOVI SALDI ancora non ci sono ma l’accordo è ormai a un passo, anche se resta in sospeso la richiesta di riduzione del deficit strutturale. Ieri Tria ha incontrato il commissario Moscovici e il vicepresidente della commissione Dombrovskis e la trattativa proseguirà serrata oggi. «Resto a Bruxelles finché non raggiungiamo l’accordo», ha annunciato il ministro al termine del giro di incontri.

In mattinata sembrava che qualche serio scoglio ancora ci fosse. «Serve un ulteriore sforzo da tutte e due le parti», aveva detto Pierre Moscovici. Poi, dopo il faccia a faccia con Tria ha corretto, addebitando la frenata mattutina al più classico degli alibi, il fraintendimento: «Intendevo sforzi di dialogo e discussione, non di cifre. Volevo solo dire che la discussione non è ancora conclusa. L’Italia ha fatto uno sforzo consistente e apprezzabile e vogliamo arrivare rapidamente all’accordo».

E’ evidente comunque che, se ancora c’è da discutere, qualcosa ancora da definire c’è. Ma le parole di Moscovici sgombrano il campo dal solo ostacolo che avrebbe potuto rivelarsi insormontabile, la richiesta di una ulteriore diminuzione del deficit nominale. Una maggioranza che già esce ammaccata dalla sconfitta nella battaglia d’Europa non avrebbe potuto accettare neppure un decimale in meno, e quanto ammaccato sia lo stato maggiore gialloverde è apparso chiaro a chiunque, mercoledì sera in una trattoria romana, abbia visto le facce listate a lutto di Salvini e Di Maio. Hanno dovuto ingoiare il boccone amaro, con tanto di comunicato congiunto diffuso ieri per confermare piena fiducia nella mediazione del premier Conte. Sul fronte del deficit la commissione Ue, nonostante le pressioni di alcuni Paesi, sembra però intenzionata a mollare, anche perché giustificare una rigidità esagerata a fronte della burrosa cedevolezza con la Francia sarebbe stato impossibile. Se ne riparlerà, se i conti non saranno quelli rosei vagheggiati dal governo di Roma, tra qualche mese.

I PUNTI DI FRIZIONE oltre al nodo del deficit strutturale riguardano probabilmente le clausole di garanzia che dovrebbero impedire di sforare i tetti promessi e la dinamica delle dismissioni, una di quelle misure che finiscono spesso per risolversi in nulla. L’idea del governo è quella di evitare la vendita diretta e costruire invece un fondo di edifici pubblici del quale vendere poi le azioni, un po’ come se fossero titoli di Stato. La pietra angolare dell’accordo, oltre ai risparmi dovuti a quanti non approfitteranno del reddito di cittadinanza è la derubricazione di quota 100 a finestra triennale, con impatto annullato sul deficit strutturale. Conte, con gli europei, se la è venduta come espediente per sanare definitivamente la situazione degli esodati e nulla di più. Impossibile dire se fosse sincero e altrettanto difficile è capire se gli europei ci abbiano creduto o abbiano solo fatto finta per reciproca convenienza. Lo spread scivolato a 268 punti è una buona notizia per tutti.

L’ACCORDO CHE SI PROFILA è un tipico compromesso basato sulla reciproca debolezza. L’Italia ha accettato di genuflettersi riconoscendo la sovranità di Bruxelles e ha concesso parecchio ma non troppo. L’Europa si è accontentata di una vittoria politica senza andare per il sottile nel merito dei provvedimenti. Il commento del ministro Centinaio chiosa alla perfezione la vicenda: «La Ue ha voluto il braccio di ferro ma anche noi dobbiamo fare un po’ di mea culpa». Salomonico.

Il principale elemento che ha spinto il governo a cedere è stata la paura di una crisi che la procedura d’infrazione avrebbe reso quasi inevitabile. La navigazione invece proseguirà ma molto più accidentata e esposta ai venti di quanto non fosse prima della campagna europea. La luna di miele gialloverde è finita.