La sconfitta del Sì non poteva essere più piena.

Oltre ai cittadini, con il loro voto, ci hanno pensato pure i più spregiudicati operatori economici che hanno seppellito il terrorismo psicologico dei guru di Renzi sparso a piene Tv nelle ultime settimane.

Il lunedì da nero è diventato roseo. Piazza Affari è ai massimi dal post Brexit con i titoli bancari; lo spread scende a 158 punti; i BTp sotto il 2% segnalano che il rischio Italia non c’è o non è percepito; le notizie che trapelano di un intervento statale diretto in salvataggio del Monte dei Paschi di Siena – dopo il fallimento della soluzione privata voluta da Renzi – fanno rimbalzare anche questo titolo.

Intanto si attende che il giorno dell’Immacolata porti ad un allargamento di durata e di criteri del quantitative easing della Bce, la sola promessa del quale aveva tranquillizzato i mercati.
Ma per chi non ha il portafoglio ricco di titoli di stato o di azioni c’è poco da gioire.

Il Senato ha licenziato la manovra di bilancio con un voto di fiducia dato a un governo che si era già dichiarato dimissionario per bocca del suo leader in diretta Tv domenica notte. In tempi surreali, si potrebbe dire. Salvo poi accettare di procrastinare di qualche ora l’effettività dell’atto per chiudere la vicenda della legge di Bilancio. In fretta e furia.

Il presidente della Commissione Bilancio del Senato, il pd Tonini, si è pubblicamente dispiaciuto per non avere potuto effettuare una lettura completa della legge. E già questo la dice lunga sulla consapevolezza della fiducia concessa. Ma ciò che è più grave è che la Camera, dove pure la legge era stata licenziata con voto di fiducia, aveva lasciato al Senato diverse questioni da cambiare e introdurre. Questo ovviamente non è avvenuto. È la prima volta che il disegno di legge finanziaria viene modificato solo da un ramo del Parlamento. Una vendetta per il mancato bicameralismo non paritario?

Sta di fatto che in questo modo è ancora più evidente si tratta di una manovra di bilancio a netto favore dei ceti forti e di coloro che si sono arricchiti illecitamente.

Restano le provvidenze per le imprese, nella speranza che questo rilanci l’economia, malgrado gli evidenti fallimenti di simili politiche; il ritorno senza pagare pegno dei capitali fuggiti all’estero; la cancellazione di Equitalia con annessa rottamazione delle relative cartelle. Spariscono invece quelle provvidenze che erano state pensate per accalappiare voti per il Sì. II referendum c’è già stato: passata la festa gabbato lo santo.

Non si tratta solo di briciole. Restano fuori i soldi per la sanità di Taranto per i guasti provocati dall’Ilva; il già incerto accordo sugli 85 euro nel pubblico impiego rimane scoperto per il 2018; l’ampliamento degli ecobonus e del sisma bonus agli incapienti non pervenuto; sparisce il taglio del 33% delle slot machines negli esercizi commerciali; non ci sono certezze sul «bonus mamme» che avrebbe dovuto essere erogato dal 1 gennaio secondo un emendamento caduto come altri mille, a degna conclusione della farsa del fertility day; viene rimandata sine die l’assunzione dei 350 precari dell’Istat; manca lo sconto fiscale per la bonifica dall’amianto o per chi immette il fotovoltaico nell’immobile; non si sa quale sarà la ripartizione del fondo di tre miliardi per gli enti locali; si rinvia l’estensione dell’accesso alla pensione anticipata per le lavoratrici. E si potrebbe continuare.

Più d’uno ha sostenuto che ciò che è caduto verrà poi ripreso in successivi decreti a cura del governo che verrà. Fingendo di dimenticare che la Commissione europea, al cui giudizio la nostra legge di Bilancio è sottoposta, ha già fatto sapere, seppure in modo non ancora perentorio, di pretendere una nuova manovra aggiuntiva di 5 miliardi. E c’è ragione di sospettare che la sua severità sarà tanto più intransigente, quanto meno risulterà gradita la figura dell’eventuale successore di Renzi alla guida del prossimo governo, tecnico o istituzionale che sia.

Bisognerà prepararsi, a livello politico e sociale, a respingere questa nuova mannaia.