«Tu sai che sempre / uno tra noi / si assenta / per abitare la luce / la lingua / poeta o manovale / convitati di una parola / illuminata». Questa lirica di Thierry Metz appare in Sulla tavola inventata (pp. 104, € 12,00), pubblicata dalle Edizioni degli Animali con ottima traduzione e cura di Riccardo Corsi. La raccolta, originariamente pubblicata da Jacques Brémond nel 1989, contiene un breve scritto introduttivo dell’editore francese che conobbe e frequentò Metz, la cui figura è associata a quel suicidé de la société di cui parla Artaud a proposito di Van Gogh. E, in effetti, la parabola espressiva di Metz è paradigmatica di quel senso di precarietà che pervade la vita di alcuni artisti operanti tra gli anni settanta e novanta: per restare nel nostro paese, si pensi a quella sorta di lost generation comprendente poeti scomparsi anzitempo come Beppe Salvia, Remo Pagnanelli, Giuseppe Piccoli, Nadia Campana, Ferruccio Benzoni.
La vicenda esistenziale e letteraria di Metz è quanto mai penosa: nato a Parigi nel 1956, campione di sollevamento pesi, si sposa nel 1977 con una sua compagna di scuola dalla quale avrà tre figli. Si stabiliscono ad Agen, in campagna, sulle rive della Garonne. Presto cominciano a manifestarsi i primi sintomi di una depressione complicata dalla durezza del mestiere saltuario di manovale e dal consumo di alcol. Nel 1988 muore, sotto i suoi occhi, il secondo figlio, schiacciato da una macchina. Per il poeta inizia il calvario dei soggiorni nelle case di cura di Périgueux, Agen, Cadillac. Dopo essersi trasferito a Bordeaux, si toglie la vita nell’aprile del 1997. Pubblicò, oltre al Journal du manœuvre (1990), intenso diario in cui racconta le vicissitudini del suo lavoro, varie raccolte poetiche, tra cui le Lettres à la bien-aimée (’95). In italiano sono disponibili le prose, dal valore quasi testamentario, di L’uomo che pende, edite nel 2001 da Via del Vento.
Pierre Drachline ha osservato che la scrittura di Metz «spogliata all’estremo, esprime l’essenziale in poche parole». Verbo ridotto all’osso dunque, privo di qualsiasi orpello, riconoscibile per una valenza etica che si rapporta alle cose in maniera onesta e severa, scaturendo dalla poca energia restante al manovale per comporre in un quadernetto, la sera, qualche sparuto frammento che possa adeguatamente rappresentarlo, considerato «che l’oggi / dorsale di un altrove / non ha altro orizzonte che la lingua / dove il lampo si denuda». Sarà proprio il sigillo dell’autenticità a contrassegnare anche Sulla tavola inventata, che trova diverse analogie con il logos celaniano (Sur un poème de Paul Celan si intitola una silloge postuma del 1999, edita sempre da Brémond), in una sorta di alternanza tra immagini criptiche, allusive, ed esigenza di mendicare «una parola chiara», sbilanciata a rendere il senso di adesione agli eventi naturali. Luce, alberi, foglie, uccelli, stagioni, angeli sono termini che ricorrono ossessivamente, quasi a formare, sic et simpliciter, un carosello di immagini innocenti, puerili, tese a contrastare «lo stridere della tua voce petrosa». Ma è presente anche la dolorosa contrapposizione tra «una vanga e qualche parola», come avverte Brémond: «Ogni giorno costruiva la sua vita – in senso proprio e figurato – con la pala dello sterratore e la cazzuola del muratore, con la penna del poeta, e pur scontrandosi contro quel muro, lui lo interroga, e da quel muro apprende».
La singolare cadenza di un verso elementare, che rinnega le griglie delle forme chiuse e tuttavia mantiene la tentazione ad articolarsi in un contesto lineare, ben si sposa con l’annotazione diretta di minimi particolari di fronte ai quali l’autore dimostra uno stupore infantile («una spirale di uccelli / che abitano la tua voce») e che si sforza di comprendere con disarmante lucidità. Ma la poesia di Metz non intende avere nessun approccio di carattere ontologico, in quanto i singoli testi si riducono a volatili schegge cognitive, spesso dall’esito allucinato, di un «testimone senza nome». Il tema del «libro», affine a certe interrogazioni di ascendenza veterotestamentaria di Jabès, costituisce uno dei motivi dominanti della raccolta: «Oh manovale / il tuo libro è nudo / e tu non hai nome / ma l’amata ha tracciato un cerchio / intorno al tuo chiarore». E altrove: «Non eri venuto per tanta chiarità / tu nomade del respiro / portato dallo strumento alla deriva / sotto il soffitto dei perché / andavi da un giorno all’altro / per appianare la sete / rischiarla a monte del libro / all’altezza del fogliame / e solo – con il lampo – / per sopravanzare l’oracolo».
Metz abbisogna di un’accentuata fisicità («costruisci lontano dalla parola») per trovare una dimensione che gli sia congeniale e la scrittura, rigorosamente manuale ed evocativa, rappresenta in tal senso esorcismo e riscatto, nonché esercizio indefesso di spogliazione, di sottrazione degli elementi superflui che contraddistingue il tentativo radicale di riconciliarsi con un’esistenza indecorosa, come se si dovesse puntellare a più riprese la struttura di una casa in rovina o ci si chiedesse «Dov’è il fratello alchemico che si consuma / in oscura creta / il volto / come un uccello semplificato».