Come la terra d’Otranto di Carmelo Bene, anche il Portogallo di Manoel de Oliveira ci è sempre sembrato terra nomade – in particolare Oporto, o Porto, terra d’acqua che fluttua ai confini tra il fiume Douro (“faina fluvial”) e Oceano, trasvolabile dagli spiriti, che per questo non hanno bisogno di ponti o ingegneri, e neppure di ali. Ora De Oliveira, già da vivo spirito danzante, ancora capace, a poco meno di cent’anni, di gettare via il bastone e mettersi a ballare all’improvviso, potrebbe constatarlo di persona.

Ricordo i tanti discorsi che si sono fatti sulle presunte contaminazioni teatrali dei suoi film, dopo gli inizi documentaristici: ma era teatrale Francisca? Era teatrale Le soulier de satin? Era teatrale Os cannibais? Era teatrale Gebo e l’ombra? Chi lo crede, non sa bene cosa sia il cinema e neppure il teatro. Come diceva de Oliveira stesso, per fare cinema bisogna creare il proprio teatro.

Pensiamo a Os cannibais. Era questo il nuovo raccontare, diverso da quello classico (basato sul montaggio), che de Oliveira sperimentava (allora aveva solo ottant’anni). Dunque fondamentale la parola, la sua armonia interna, qui unita alla musica, ma che non richiederà sempre necessariamente (vedi il film su padre Vieira) accompagnamenti musicali; fondamentale certo il teatro, col quale il cinema (anche quello cosiddetto muto) ha in comune non tanto la parola, quanto il misterioso aderire ad essa dell’immagine, secondo necessità. Ma non solo: teatro e cinema hanno in comune l’utilizzo dei corpi, quello delle maschere e gran parte della scenotecnica. Os canibais, nel finale, usava le maschere (di lupi, di maiali) in modo grottescamente oltraggioso, proprio perché non pretendeva di fingere trasformazioni “realistiche”, né di nasconderne l’origine posticcia.

I corpi cinematografici dell’ultimo de Oliveira, però, per me ormai viaggiano nello spazio-tempo illimitato dello Strano caso di Angelica.

Qui viene a proposito riproporre una storia raccontata da de Oliveira stesso nel documentario Oliveira, l’architetto, a lui dedicato nel ’93 da Paulo Rocha. Racconta de Oliveira che, nei suoi anni giovanili, fu pregato di eseguire alcune fotografie d’una bellissima ragazza, morta all’improvviso. Circondata dai parenti in pianto, ella era stata adagiata su un sofà, volto bianco come quello d’un angelo, che spiccava sul vestito azzurro: sembrava che dormisse.

Come dilettante fotografo, allora, Oliveira usava una Leica. A quei tempi, gli apparecchi Leica sdoppiavano le immagini, e per mettere a fuoco bisognava farle coincidere. Così, durante l’operazione, sembrava (racconta sempre de Oliveira) che il corpo della morta si sdoppiasse, o meglio, che l’anima uscisse dal suo corpo, come se abbandonasse la spoglia mortale. Dall’episodio, molti anni più tardi, lo stesso de Oliveira prese spunto per il suo film Angelica, storia di un’ossessione fantastica, nella quale una morta rivive, trascinando con sé, come fantasma, il giovane chiamato a fotografarla.

Indipendentemente da ogni deriva esoterica, è racchiusa comunque, nella fotografia, una possibilità d’innesco del fantasma, l’inquietante sensazione di non riconoscersi, o di constatare l’incombere dell’altro in se stessi. Sensazione accentuata nel cinema dall’introduzione del movimento.

Bisogna sempre sospettare dell’evidenza dei corpi, non scambiare l’aspetto per la garanzia assoluta dell’identità.

Lo strano caso di Angelica: film-sogno, da vedere in sogno, come tutto quello che succede in piena notte. O nel delirio della febbre, come in un altro film “portoghese”, Misterios de Lisboa (di Raoul Ruiz).

De Oliveira non era ancora arrivato a compiere cent’anni, quando girò O principio da incerteza , tra due secoli diversi: un melodramma ottocentesco, ispirato da Agostina Besso-Luis (tra intrighi di famiglia, agnizioni e rivelazioni, passioni e agguati, vecchie dimore nobiliari, magari prive di acqua corrente ma ricche di statue e altarini barocchi), si svolgeva, per così dire, in primo piano – mentre il traffico della modernità scorreva lungo le autostrade, sullo sfondo.

In che epoca si svolge, invece, Angelica? Sono gli anni ’50? O il tempo ha smesso di scorrere e ormai siamo stati trasportati nell’anti-materia? La morta nella foto si muove, sorride a Isaac, il fotografo. Poi seguita ad apparirgli come una visione chagalliana. Volano insieme abbracciati, trasvolando le acque del Douro, senza bisogno dei ponti dell’ingegner Cintra. Nell’aldilà, forse si dispiega pura energia. E’ l’Apocalisse, non tanto come distruzione, rovina, carestia, guerra, ma come regno dell’anti-materia. Non i Quattro Cavalieri, ma il peso infinitesimale di Sette Zanzare determina quello squilibrio per cui materia e anti-materia producono, incontrandosi, un reciproco annullamento.

Isaac entra in una camera oscura, dove giace la morta, vegliata dai parenti silenziosi. Subito chiede una lampada di maggiore potenza, perché ha bisogno di più luce. La morta apre gli occhi e gli sorride, per la prima volta, mentre Isaac la sta fotografando. Isaac non crede ai suoi occhi, come se stesse guardando una foto e la foto all’improvviso si muovesse, diventasse cinema.

Sottratto alla gravità, Isaac compie viaggi aerei notturni, avvinghiato allo spirito di Angélica, alla quale riesce addirittura a donare un fiore, un fiore bianco, raccolto al volo mentre galleggia sull’acqua. Forse è quel giglio delle valli celesti (“o lirio des celestes vales”) cantato da Antero de Quental in uno dei suoi sonetti, citato da de Oliveira nell’incipit del film.

Sono forse entrato nello spazio assoluto? – si chiede Isaac, pensando allo spazio newtoniano, che esiste indipendentemente dagli oggetti che vi si trovano, come continua a esistere una stanza vuota dopo che sono stati portati via tutti i mobili. E in effetti, la stanza di Isaac, nella pensione della signora Justina, continua ad esistere dopo che il suo fantasma è scomparso verso l’alto, mano nella mano con quello di Angélica, lasciando sul letto il cadavere, la spoglia mortale, alle cure impotenti del dottor Matias.

Questi, la signora Rosa, l’ingegnere (Cintra) e l’altra ospite (Clementina, pure lei ingegnere), siedono a tavola per il pranzo, servito dalla signora Justina, e parlano del più e del meno; Isaac non siede con loro, resta in piedi, in disparte. Non partecipa ai loro discorsi, forse respinto dal razionalismo (dallo pseudo-scientismo) che li pervade. Il dottor Matias ama citare Ortega y Gasset (“Yo soi yo y mi circumstancia”). L’ingegnere ricorda quello che dice Rui Cardoso Martins a proposito dell’Apocalisse, che potrebbe essere provocata dal peso infinitesimale di sette zanzare, le Sette Zanzare dell’Apocalisse. Evento però piuttosto improbabile, tutti vicendevolmente si assicurano, perché non è mai riuscita a costituirsi, malgrado lo LHC e le catastrofi cosmiche, una quantità sufficiente di anti-materia. Quanto alla signora Justina, lei, anima semplice, crede nei malefici e nella stregoneria, cui attribuisce la morte del suo amato cardellino.

L’anti-materia dovrebbe avere lo stesso aspetto della materia, e il loro incontro provocare il reciproco annullamento – ma i commensali razionalisti, in fondo, ne parlano per sentito dire. Isaac forse ne sa di più, non solo in quanto fotografo, ma in quanto fotografo d’una morta e di

altre cose strane (per esempio, operai che lavorano cantando in una vigna, secondo un sistema antico) – dunque inevitabilmente destinato all’incontro col fantasma, che gli sorride dal suo catafalco, e poi gli appare, avventurandosi insieme a lui in trasvolate aeree sulla città, sul fiume, sull’oceano: figure in bianco (il vestito da sposa di Angélica, il pigiama di Isaac), sovrimpressioni diafane sullo sfondo del buio notturno.

Il cinema si svela come fantasma della fotografia, l’allucinazione della sua messa in movimento. Nel cinema di de Oliveira, entra in gioco un doppio diventare-fantasmi, una doppia, anzi multipla trasfigurazione che si coglie solo se si condivide una condizione di delirio – quel delirio che , al di là d’ogni realismo, ci fa ultra-vedere, conferendo vita alle ombre e ombre alla vita.

Ora pare che de Oliveira sia morto – ma bisogna assolutamente provare a fotografare la presunta salma con una vecchia Leica.