L’uscita del film Mank sui nostri piccoli schermi ha risvegliato vecchi ricordi scolastici, ovvero lo studio della sceneggiatura originale di Citizen Kane (in italiano Quarto potere) firmata da Herman Mankiewicz, detto per l’appunto Mank, messa a confronto con il film di Orson Welles. Una sceneggiatura che aveva scatenato nel 1971 una diatriba sull’autorialità del film, quando la critica americana Pauline Kael, in Raising Kane, rubando l’analisi e le deduzioni del mio professore in quella classe, Howard Suber, aveva attribuito la paternità del film a Mank.
Dimentichiamo Mank che usa e abusa l’aneddotica relativa a Quarto potere, a Mank e a Hollywood, e i pettegolezzi meno scabrosi sulla relazione tra William Randolph Hearst, il magnate della stampa, e l’attrice Marion Davies, mostrando dello sceneggiatore la dissolutezza, ma ben poco del suo genio.

Mank invece aveva avuto una carriera brillante a Hollywood, uno tra i primi giornalisti a lasciare New York per la costa Ovest, con la fama di scrittore arguto e grande storyteller, corrispondente da Berlino e critico teatrale per le maggiori testate del tempo; uno quindi che conosceva bene il mondo della carta stampata, che era cresciuto nell’era dello Yellow Journalism, il giornalismo scandalistico, che indagava sulla corruzione politica e che tendeva a rendere sensazionale qualsiasi notizia. Famoso il telegramma («Qui si fanno milioni e la concorrenza è costituita da idioti») che Mank aveva spedito a Ben Hecht, l’autore di Prima pagina, come lui giornalista e maestro di cinismo, di dialoghi scoppiettanti e di una buona parte dei classici degli anni Trenta. Al tempo i giornalisti erano molto apprezzati a Hollywood, soprattutto dopo l’introduzione del sonoro, per la loro velocità di scrittura, l’invenzione narrativa e il modo in cui sapevano elevare la realtà quotidiana a dramma o commedia. Inoltre, dalla fine degli anni Venti e fino alla guerra i newspaper pictures erano un vero e proprio genere, i cui stereotipi si ritrovano puntualmente anche nel capolavoro di Welles.

Herman Mankiewicz ha scritto per i fratelli Marx, W.C.Fields, von Sternberg, i dialoghi arguti di Dinner at Eight ecc., ma dal 1935 l’alcolismo e la passione per il gioco – quindi una vena autodistruttiva – avevano causato uno stallo nella sua carriera, per cui accettò di collaborare con il programma radiofonico del Mercury Theatre, guidato dal giovane Orson Welles, ospitato alla RKO, una delle prime conglomerate che univa cinema e radio. Il contratto che George Schaefer della RKO offrì poi a Welles per il suo primo film segna l’eccezionalità di questa vicenda: libertà assoluta e controllo sul montaggio. Per questo progetto ci voleva quindi una storia speciale, un protagonista all’altezza dei personaggi shakespeariani che Welles aveva dimostrato di saper interpretare così intensamente sul palcoscenico. E venne reclutato Mank.

Ai lettori sconsiglio a questo punto la lettura di questo lavoro- uno spoiler tignoso- se non hanno mai visto questo film. Un’altra avvertenza è quella di calarsi nel complesso ruolo dello sceneggiatore e cercare di capire come si costruiscono le sfumature e le funzioni dei personaggi.

L’idea di raccontare un personaggio controverso come William Randolph Hearst viene attribuita a Mank, che lo conosceva bene, piuttosto che a Welles, che comunque la condivise immediatamente, perché gli permetteva di interpretare una figura grandiosa e a suo modo audace. Il personaggio di Susan Alexander rimandava quindi all’attrice Marion Davies, ballerina delle Ziegfield Girls, che Hearst, sposato e politicamente ambizioso, cercò di tenersi accanto costruendo per stare con lei il castello di San Simeon e investendo nella sua carriera cinematografica.

Con un’intuizione geniale, da vero tycoon, Hearst aveva già avviato una sua casa di produzione, la Cosmopolitan, che produceva cinegiornali sfruttando le fonti giornalistiche della sua stampa, oltre a cartoni animati presi dalle sue strisce e film tratti dai racconti pubblicati dalle sue riviste, costruendo quindi una perfetta macchina mediatica, con in più lo sfruttamento capillare di quotidiani e riviste per pubblicizzare i suoi film.

Per la Davies arruolò uno dei migliori registi del tempo, l’italoamericano Robert Vignola, che la propose prima come una flapper, permettendole di dimostrare le sue doti comiche, e poi, su pressione di Hearst, in una serie di fastosi film in costume tra i quali When Knighthood Was in Flower «il film più costoso realizzato negli anni Venti», film spettacolari e museali -piuttosto che colti, come le collezioni del magnate- non adatti alla recitazione scanzonata che era il forte della Davies. Per l’appunto come Susan Alexander, che funziona come cantante da night e non certo come l’interprete operistica che Kane vuole costringerla a diventare.

Mentre Welles cercava di mettere in piedi altre produzioni Mank, azzoppato in un incidente stradale, viene portato in convalescenza e a disintossicarsi in un ranch nel deserto, a Victorville, lontano dalle distrazioni di Hollywood.

La prima stesura della sceneggiatura del film, scritta in solitudine da Mank, in parte accessibile agli studiosi, corrisponde perfettamente alla struttura del film, dal finto cinegiornale iniziale, all’idea del mistero di Rosebud (bocciolo di rosa), ai vari flash back, incluse molte delle battute memorabili del dialogo e dettagli come la palla di vetro con la neve. La sua drammaturgia ben sviluppata fa dire ai critici pro-Mank che il merito della grandezza di Quarto potere vada attribuito in larga parte al suo sceneggiatore, visto che in nessuno dei film successivi del giovane genio si trova una struttura narrativa così calibrata.

Questa prima stesura si intitolava American, erigendo Kane a simbolo delle contraddizioni, della storia e della grandezza (malata) del paese. Un cenno a parte merita Rosebud: il mistero-trucco narrativo che mette in moto la ricerca-puzzle sul personaggio emerge da un «errore» di sceneggiatura fin dalla prima versione: nessuno è nella stanza quando Kane sussurra la parola; l’infermiera è uscita e ha chiuso la porta e l’uomo muore da solo, lasciando cadere la palla di vetro. Eppure tale è la forza del racconto (e successivamente) della sua messa in scena, che l’errore non viene rilevato. Rosebud, scopriamo alla fine, è la slitta con cui il bimbo Kane gioca nella sua infanzia, con cui si difende da Tatcher, il tutore che lo sta portando via dalla sua casa nella neve. (Ma qualsiasi pettegolo a Hollywood sapeva che Rosebud era anche il nomignolo con cui Hearst chiamava Marion Davies, facendo riferimento alle sue parti intime.) Nella realtà pare invece che non si trattasse di una slitta, ma di una bicicletta.

Non rimane che andare a confrontare la prima sceneggiatura di Mank con le stesure successive e il film finito, per ricostruire cosa accade nelle cinque versioni intermedie, delle quali una messa in buon ordine da Welles e le altre corrette da Mank, secondo le indicazioni del regista o tagliate per restare nel budget, che nel frattempo era cresciuto a dismisura.

Il cambiamento principale è la posizione centrale che assume Kane, personalità dominante quanto contradditoria, come il giovane Welles, regista geniale ma anche desideroso di successo e dell’amore del pubblico. E autodistruttiva come Mank stesso. Scompare il melodramma a fosche tinte che dipingeva Kane come un ricattatore, omicida e politico corrotto e vengono attenuati, probabilmente su consiglio della RKO, alcuni riferimenti che rendevano troppo letterale l’associazione Hearst=Kane.

Il cambiamento si nota già nella seconda stesura, ispirata in parte dai commenti di Welles, ma scritta a Victorville da Mank. Intere scene vengono tagliate, sostituite da battute di dialogo o sintetizzate nel cinegiornale. Cambia il nome del castello da Alhambra, spagnoleggiante, quindi evocativo della California dove si ergeva San Simeon, trasformato nell’esotico Xanadu, cade l’accusa a Kane di aver istigato il tentativo di assassinio di un Presidente; eliminate alcuni festini con ragazze allegre e in particolare la festa romana del giovane scapestrato Kane con il suo amico Leland, in cui dichiara di voler diventare editore per fare dispetto a Thatcher, il suo tutore. (In questo modo si rende autonoma la scelta del giovane Kane, e più forte la sua attrazione per la carta stampata, ovvero per la comunicazione.)

Questa scelta è confermata dall’eliminazione del personaggio dell’editore del Chronicle, rivale di Kane, facendo sì che il desiderio di avere per sé i migliori giornalisti della città sia una manifestazione del suo collezionismo, della sua brama di possesso, piuttosto che concorrenza sleale. Sparisce anche il presidente della finanziaria Metropolitan Transfer che nella sceneggiatura di Mank veniva ricattato da Kane (e da ciò nasceva la sua fortuna economica). In questo modo la ricchezza di Kane rimane legata alla miniera ereditata dalla madre. Cambia il nome del figlio, da Howard Kane a Kane Jr. facendone una figura affettivamente meno rilevante, attraverso l’eliminazione delle scene in cui Kane e Leland giocano con lui. Lo si vede solo in situazioni formali come l’evento politico al Madison Square Garden, e scompare la scena del suo funerale (ucciso nientemeno che mentre assaltava con i membri di un’organizzazione fascista un’armeria).

Nella prima sceneggiatura di Mank, Susan aveva una relazione extramatrimoniale con un certo Jerry, che Kane uccideva, ma già nella seconda versione l’episodio viene eliminato. Quando Susan se ne va da San Simeon, Kane chiedeva mestamente alla cameriera di pulire la stanza mentre nella seconda la distruzione furiosa della stanza mostra non solo il dolore e la rabbia per la perdita ma anche la reazione infantile di Kane, la sua fragilità affettiva. Non a caso alla fine della scenata egli recupera la palla di vetro che lo lega a Susan, quella che si trovava a casa della ragazza nella sera in cui si erano incontrati, sotto la neve, un leit-motif come Rosebud.
La figura di Susan Alexander viene addolcita rispetto a quella descritta da Mank, che proponeva una ragazza decisa, intenzionata a diventare cantante, talvolta capricciosa e insoddisfatta. Nella versione successiva invece si sottolinea la sua fragilità, facendone una vittima di Kane.

Nel rapporto con l’amico Leland si riducono gli aspetti sentimentali e privati, come le scene di dissolutezza giovanile, il dispiacere autentico di Kane quando l’amico giornalista lascia il giornale, e la frase in cui si ipotizza che Rosebud fosse Leland, e si rende il personaggio meno gradevole. Inoltre nel film Leland e Bernstein spesso appaiono insieme, rendendo la loro funzione più strettamente associata alla vita professionale del tycoon.
La famiglia di Kane viene modificata: nella sceneggiatura di Mank, Charles adulto incontrava a teatro il padre anziano, accompagnato da una ragazza giovane, avendo divorziato dalla moglie, madre di Kane – un taglio che congela sullo sfondo per sempre l’infanzia di Kane, nella sua immagine ripresa dalla finestra, a giocare a palle di neve. Acquista risalto invece la figura della madre: Kane incontra Susan mentre sta andando a ispezionare il deposito dei possessi materni (slitta inclusa), e Leland dice di Kane: «Tutto ciò che egli voleva era l’amore ed egli amò solo Charles Kane e sua madre».

Il senso di alcune battute cambia: per esempio quando Leland dice che Kane ha bisogno di essere amato a modo suo nella sceneggiatura originale si riferiva al rapporto con Emily, la prima moglie, mentre nel film la battuta viene associata alla sua sconfitta politica. Emily stessa, da donna tesa a tutelare la propria posizione sociale, si mostra invece forte e orgogliosa nel film. Geniale il modo in cui i nove anni della vita di coppia con Emily sono stati sintetizzati nel montaggio delle scene al tavolo della colazione, laddove la sceneggiatura prevedeva il viaggio di nozze e altri dettagli.

Messi uno accanto all’altro questi cambiamenti rispetto alla scrittura iniziale rendono Kane un personaggio meno sentimentale ma anche meno malvagio e rendono gli altri personaggi più complessi e comunque proposti solo in funzione del loro rapporto con Kane, che primeggia solitario, senza antagonisti o amici.

La dimensione politica e internazionale di Kane assume inoltre maggior rilievo: ricordiamo che Welles era impegnato all’epoca nella propaganda elettorale per FDR ed era un fervente interventista antifascista, e che Mank ha finanziato la fuga di centinaia di ebrei dall’Europa. Nel 1940, questi temi condivisi tra i due, erano materia scottante in una Hollywood ancora isolazionista.

Il Kane del film è più potente e dominatore, ma anche più misterioso, perché i suoi comportamenti non sempre corrispondono a motivazioni evidenti, come nelle tradizionali sceneggiature hollywoodiane, ma talvolta egli si comporta in modo contradditorio e autolesionista: aiutato da Mank, il giovane Welles pensa a Shakespeare e non a Hollywood, proiettando se stesso nella figura del magnate.

Alcuni dettagli visivi sono certamente ascrivibili a Welles: l’immagine della K sul cancello con l’aggiunta del filo spinato viene associata al No Trespassing, all’idea del mistero; le entrate in scena descritte da Mank attraverso cancelli e scalinate diventano l’entrata attraverso la finestra, e nel saloon dove si esibisce Susan Alexander si entra dal tetto: Welles voleva staccarsi il più possibile dal teatro, al punto di far violenza alle regole scenografiche del cinema imponendo stanze con tanto di soffitto e per di più visibile. La profondità di campo che il direttore della fotografia Gregg Toland riesce ad ottenere immerge il personaggio in uno spazio così vero da sembrare artefatto. Il montaggio di Robert Wise completa il capolavoro, con un ritmo avvolgente e perfette simmetrie nelle dissolvenze tra i flash back.

Il film viene nominato agli Oscar per nove categorie, inclusa l’interpretazione di Welles (ma vince Gary Cooper per Sergeant York); vince solo una statuetta: quella per la sceneggiatura, il cui credit, dopo varie contrattazioni, era stato attribuito a entrambi, Mank e Welles. Alla notizia Mank ringrazia per il premio «per come quella sceneggiatura è stata scritta: in totale assenza di Orson Welles». La querelle è infinita, ma in effetti il copione è stato scritto, materialmente, da Mank, anche se è impensabile che uno come Welles potesse essere davvero «assente».