C’è un video di Robert Cahen del 1993, intitolato Voyage d’Hiver, che ben sintetizza la poetica di questo grande creatore di immagini, prossimo alla soglia dei 70 anni: è un lavoro girato nell’Antartide e basato quindi su un paesaggio perennemente uniforme, caratterizzato da un’infinita superficie bianca; da questo vuoto, gradualmente, in una delle sequenze più rivelatrici, affiorano due figure umane, avvolte nelle tute termiche colorate. E poi, ancora, ecco altri elementi minimali, fino all’emergere del mare ghiacciato, degli iceberg, come fosse un’epifania. L’artista (e videoartista, si sarebbe detto un tempo) francese – che vive ancora oggi a Mulhouse (in Alsazia), dove è cresciuto fin da piccolo – ha sempre lavorato su questa incredibile esplorazione/immersione del/nel reale, amplificando emozionalmente dettagli ed eventi apparentemente banali, alla ricerca di una drammaturgia visiva che si costruisce lentamente, proprio come una partitura musicale, in crescendo, rivelando poeticamente elementi del paesaggio, naturale ma anche umano. La musica è solo uno dei tanti paralleli possibili, dal momento che Cahen nasce come compositore ma ben presto abbandona le sperimentazioni sul suono per dedicarsi a quelle sull’immagine. Poi c’è il rapporto con la pittura, perfino con la scultura: si è parlato spesso di un uso quasi scultoreo del video, di una manipolazione della materia elettronica – prima analogica e poi digitale – ottenuta innanzitutto attraverso un’alterazione temporale, l’uso straniante ed emozionale del ralenti.

Cahen è sicuramente un pioniere dell’immagine elettronica post-prodotta, poiché non ha mai attraversato una fase archeologica e concettuale del video, quando cioè il videotape aveva solo il potere di documentare mediante immagini, ma non ancora di modificare le immagini stesse, come sarebbe poi avvenuto in seguito grazie all’evoluzione tecnologia. In questo senso Cahen si è mosso sulla stessa linea di Paik, Viola, i Vasulka ed altri. Il suo primo lavoro in elettronica del 1973, L’Invitation au voyage, è già a colori ed è intriso di suggestioni narrative. Parallelamente ai video, Cahen gira in 16mm alcuni suoi film, a cominciare da Portrait de famille (1971), passando per l’emozionante Karine (1976), che racconta la trasformazione di una ragazza basandosi solo su fotografie, o lo strutturalista Arret sur marche (1979): sono opere in bianco e nero che è piuttosto illuminante rivedere e mettere a confronto con i suoi videotape, per coglierne elementi di continuità. Ad agevolare questa duplice lettura ci pensa un prezioso cofanetto in 2 dvd dal titolo Robert Cahen Films + Videos 1973-2007, distribuito qualche anno da da Ecart Production e contenente anche un cd audio con alcune sue composizioni sonore dei primi anni ’70.

Tra i lavori video, attraverso i quali Cahen ha cominciato a delineare un suo stile personale, ricordiamo L’entr’aperçu (1980), Juste le temps (1983), ma anche opere che si ricollegano ai suoi interessi musicali, quali Boulez-Répons (1985), documentazione creativa con il grande compositore francese che dirige la sua opera più famosa (Répons, appunto) o la sinfonia visiva Hong Kong Song (1989). E, a partire dagli anni ’80, Cahen allarga anche il suo immaginario geografico: dal Cile (Chili Impressions, 1989) alla Cina (7 Visions fugitives, 1995), dal Giappone (Corps Flottants, 1997) al Medio Oriente (Sanaa, passages en noir, 2007) e così via. Alcuni di essi hanno anche una versione installativa, poiché nel frattempo – siamo a metà degli anni ’90 – l’artista ha deciso, senza abbandonare la sua vocazione di autore “monocanale”, di dedicarsi anche alle videoinstallazioni (tra di esse: Tombe, Traverses, Paysage d’hiver), facendosi conoscere nel mondo dell’arte contemporanea da cui – in compagnia di altri videasti storici – era rimasto escluso.

Ma Cahen ha saputo anche confrontarsi con la televisione, realizzando alcuni lavori su committenza e rinnovando a modo suo il rapporto tra i due medium, disattendendo in parte la celebre definizione di Paik «VT is not TV» (il videotape non è la televisione). Nel 1984 realizza insieme a Stéphan Huter e Alain Longuet, le Cartes postales vidéo (450 intervalli di 30 secondi ciascuno per il piccolo schermo, basati sul fermo immagine e sul suo sblocco inaspettato), mentre nel 1990 racconta per immagini, mediante una serie di trovate audiovisive, 16 famose opere incluse nella collezione del Musée d’Art Moderne del Centre Pompidou.

Da poco l’artista è reduce da una grande personale dal titolo Entrevoir, allestita al Musée d’Art Moderne et Contemporaine di Strasburgo che ha richiesto due anni di lavoro e la creazione di otto nuove opere, soprattutto installazioni video. Ma ha anche partecipato a un’importante collettiva presso la Fondation Fernet Branca di Saint Louis, sempre in France, che raccoglieva sette artisti della sua generazione (Ansel, Bey, Dyminski, Latuner, Nussbaum e Roesz), in gran parte pittori, le cui opere sono state suddivise per decenni. Cahen, inoltre, sta progettando un lungometraggio che assembla i backstage dei suoi lavori dalle Cartes Postale in poi, realizzati in giro per il mondo: di questo progetto l’artista francese dice: «Sarà una sorta di saga del mio incontro con l’umanità! Un lavoro lungo e difficile, poiché saranno necessari due o tre anni di tempo, e siccome non lavoro mai solo, ho bisogno di un montatore di alto livello che possa condividere questo grande viaggio insieme a me».

QUANDO IL VIDEO ERA UN’“ART A’ PART”

Conversazione con Robert Cahen

Tu vieni da una formazione musicale, quanto è stato importante per te scoprire l’arte elettronica visiva possedendo una particolare sensibilità e creatività di carattere sonoro?

La musica concreta, a partire dalla sua comparsa, tra il 1969 e il 1971 ha avuto una grande importanza per il mio passaggio dal mondo della musica a quello dell’immagine. E’ l’elettronica che mi ha portato al video. Nel 1968 ancora non sapevo che era possibile intervenire sulle immagini; del resto non conoscevo esattamente come funzionasse la televisione. I bambini non si pongono la questione, non sanno come l’immagine televisiva possa nascere di fronte a loro, su uno schermo. E’ di un’evidenza straordinaria. Non è meraviglioso ricevere immagini che provengono da chissà dove, che si trasformano e si concretizzano davanti ai propri occhi?

Quindi il video è stata una vera e propria rivelazione per te…

Penso di essermi interessato all’immagine elettronica quando ho scoperto la possibilità di manipolarla, donarle una vita particolare, qualcosa che per me è molto vicino alla magia. Durante tutti i miei studi e anche al termine del mio stage nel 1971, quando sono entrato nel Groupe de Recherches Musicales (GRM), mi interrogavo continuamente sulla scelta del tipo di creazione che sarebbe stata migliore per me: avrei dovuto fare della musica? Creare delle immagini? Dipingere? Non riuscivo a capire cosa mi si prospettava. Quando si sta compiendo un gesto non si ha il tempo di riflettere su di esso. Solo oggi ho la possibilità di ripensare a quello che ho fatto.

Quando hai iniziato a utilizzare il videotape nei primi anni ’70 qual era la situazione delle arti elettroniche In Francia?

Sono entrato negli studi dove si realizzavano gli effetti visivi nel dipartimento di ricerche dell’ORTF (diretto da Pierre Schaeffer, l’inventore, il padre della musica concreta) per lavorare sull’immagine elettronica, senza chiedermi se stessi facendo della videoarte o del cinema elettronico. Volevo solo appropriarmi degli strumenti a mia disposizione e mi sono lanciato senza pensarci, semplicemente per il desiderio di esprimermi, più esattamente per creare impressioni, suscitare emozioni. All’epoca, negli anni ’70, il video aveva un carattere molto militante in Francia ma io ero nel dipartimento di ricerche della ORTF e mi sono trovato nel mezzo di un’«art à part». Provenendo dalla provincia alsaziana, avevo appena terminato il servizio di leva ed ero ancora inesperto della vita. Avevo 25 anni e dovevo imparare tutto. Così il 1968 è passato sopra la mia testa.

Cosa hai imparato dal lavoro di elaborazione del suono e dell’immagine?

Al di là del côté estetico, ciò che mi interessava era il côté emozionale, comprendere ciò che – sotto il profilo dell’immagine e del suono – provoca delle emozioni e imparare a restituirle. Con la musica concreta ho scoperto il potere dell’ascolto. Un ascolto particolare, quello dei suoni decontestualizzati dalla loro causalità. Tutto ciò mi ha aperto un nuovo punto di vista sul mondo, allargando considerevolmente il mio campo creativo. La musica concreta porta in sé qualcosa di innovativo, alla stessa maniera in cui la manipolazione dell’immagine elettronica ci conduce in un mondo dove la narrazione può declinarsi secondo altre modalità.

Parallelamente al tuo avvicinamento alla videoarte hai girato alcuni film sperimentali in 16mm, come hai vissuto all’epoca la differenza tra il medium filmico e quello elettronico?

Negli anni 70 c’erano poche videocamere portatili disponibili a Parigi per girare immagini in esterno, nella natura, era dunque necessario filmare in 16mm. Anche per realizzare immagini rallentate usavo una cinepresa a grande velocità (200 immagini al secondo) e queste immagini hanno trovato posto nel mio primo video L’Invitation au voyage. Il passaggio dal medium filmico a quello video è avvenuto in modo molto naturale per me. Non c’era una vera barriera tecnologica, solo la necessità di comprendere il linguaggio per poterlo adattare al proprio progetto. Non era il medium a determinare il mio lavoro, ma il soggetto, il contenuto, Certo, il video consente di vedere subito il risultato delle proprie sperimentazioni, o di reagire come il pittore che può far sviluppare il colore secondo il proprio volere.

Hai frequentato e conoscevi qualche autore del cinema sperimentale francese degli anni ’60 e ’70?

Ho frequentato Jean Paul Fargier, Maria Klonaris, Yann Bauvais, Thierry Kuntzel, ma ho conosciuto anche autori internazionali come Norman McLaren o Artavazd Peleshyan… Sono stato molto amico di Patrick Bokanowski, che è uno dei grandi realizzatori di cinema sperimentale (e di animazione). Durante le nostre discussioni, amichevoli e bizzarre, abbiamo tentato di cercare una soluzione al seguente problema: come filmare un oggetto, una persona mentre precipita in caduta libera? Come riuscire a seguire questo oggetto durante la sua traiettoria e rendere conto del suo pesomettendolo in una sorta di assenza di gravità? Patrick si domandava soprattutto quale attore potesse esprimere ciò che passa nella testa di colui che cade. Io cercavo di trovare la soluzione tecnica alla ripresa di questa caduta (senza sapere ancora che il “vedere” predominava sull’effetto).

Anni dopo, nel 1997, hai realizzato una delle tue prime installazioni video, Tombe,con una serie di oggetti che cadono lentamente nell’acqua…

Ricordo ancora come ho scelto il gran numero di oggetti da immergere in acqua, nella mia casa di Mulhouse, prendendo utensili da cucina, giocattoli di mio figlio Alexandre – tra cui una locomotiva! –, lenzuola del suo piccolo letto, vestiti, giornali, ecc. e riempiendo interi cartoni da portare in una piscina nei dintorni di Strasburgo dove ho realizzato le riprese. Con questa installazione ho ritrovato le mie ossessioni di sempre. Senza alterare tecnicamente il tempo, la densità dell’acqua mi offriva un ralenti naturale, una “ritenuta di energia”. E il tempo prodotto dal ralenti offre a tutti la possibilità di vedere con un occhio nuovo oggetti visti mille volte, ma forse mai davvero osservati.

Insomma la modificazione temporale, soprattutto attraverso il ralenti, è, appunto, uno degli elementi centrali della tua estetica video…Poi vi sono altri concetti ad esso collegati come quelli di “durata” e di “velocità”.

Alcuni miei video come Juste le Temps e Hong Kong Song, rappresentano una risposta a questa problematica. Dei critici illuminati hanno citato queste opere in relazione con il pensiero di Paul Virilio. E’ stato invece con l’ausilio delle immagini in movimento che ho definito la mia posizione critica e filosofica! Le tematiche che affronto durante il mio lavoro sono collegate alla mia storia personale: è Tarkovskij che ha scritto in Scolpire il tempo che tutti portiamo dentro di noi storie degne di diventare oggetti filmici. La scelta del ralenti, per esempio, che attraversa tutta la mia opera, resta uno dei punti primordiali della mia scrittura: tento di raccontare, tra le altre cose, ciò che non si vede, l’invisibile, ma anche, in senso più vasto, di proporre una nuova partizione, una lettura aperta per lo spettatore che si proietta nelle immagini rallentate e che può costruirsi la propria storia. C’è anche la tensione, la suspence di ciò che deve arrivare, contenuta nel ralenti. E poi, come diceva Roland Barthes ne La camera chiara, c’è il «rallentare per aver il tempo infine di vedere».

Che ricordi hai del tuo primo video L’Invitation au voyage? 

Ho tradotto visivamente le riflessioni sul tempo, sul passaggio e sulla trasformazione delle immagini. E’ stata un’avventura, così ho potuto apprendere cosa significasse la produzione di un film, lavorare con una piccola troupe, immergersi nella ricerca. Credo che a quell’epoca per lavorare avessi un approccio molto “schaefferiano”, ovvero non servirmi delle macchine per quello che loro danno, ma utilizzarle, al contrario, per cercare di ricavare da esse qualche altra cosa. Bisognava inizialmente avere delle idee brillanti. Come diceva Schaeffer citando una frase di Picasso: «Trovare subito, cercare in seguito». Considero L’Invitation au voyage come un esperimento, il lavoro di un giovane autore che scopre un nuovo linguaggio al quale applica la propria poetica. Ho messo un sacco di cose, ricordi, emozioni che facevano parte della mia storia personale. Ho scelto foto, quelle delle persone che amavo, di un viaggio in Italia molto importante per me, ho colorizzato queste immagini in bianco e nero con l’aiuto di un apparecchio per effetti speciali detto “universale”, inventato dal settore immagini del Service de la Recherche. Insomma, vi ho messo dentro parte della mia esistenza dell’epoca.

Quando è stato il momento in cui la tecnologia ti ha permesso di realizzare davvero le cose che volevi e nel modo in cui le volevi?

La tecnologia non è mai stata un problema per me e i mezzi tecnici degli anni ’70 mi hanno consentito di trascrivere le impressioni che cercavo di tradurre in immagini nel modo migliore, senza nulla da invidiare alla tecnologia odierna. C’è da dire che, all’inizio dell’analogico, eravamo obbligati a maggiori limitazioni tecniche, mentre negli anni ’90 le tecniche sono divenute più efficaci e hanno facilitato la trasformazione dell’immagine, apportando una qualità maggiore. 

Negli anni ’80 hai realizzato le cartes postales con una committenza televisiva. Pensi che il rapporto tra sperimentazione video e televisione sia ancora possibile o gli spazi in Francia, così come nel resto del mondo, si sono ristretti?

In Francia in quel periodo i canali televisivi e l’INA (Institut National de l’Audiovisuel) sostenevano programmi di ricerca. Tutto ciò permise la produzione di opere sperimentali, qualcosa che oggi è praticamente impossibile. Si segue solo la legge dell’audience e ormai la maggior parte dei programmi televisivi sono format. C’è davvero poca libertà per i creatori. Sarebbe necessario che i canali del servizio pubblico mettessero di nuovo a disposizione i mezzi per la creazione e per la sperimentazione.

  

Hai avuto una formazione cinematografica? Ci racconti del Cahen spettatore?

Mio padre aveva fondato uno dei primi cineclub della Francia, nel 1945 a Mulhouse. Ho visto un sacco di classici. A casa avevamo un proiettore Pathé Baby. Mio fratello proiettava piccoli film muti su un lenzuolo attaccato al muro. Ricordo uno dei primi effetti da lui realizzati in diretta girando la manovella dell’apparecchio di proiezione: un uomo si apprestava a lanciarsi dall’ala di un biplano, ma mio fratello, imitando la sua voce, diceva: «Cazzo, Ho dimenticato il mio paracadute!», così lo faceva rimontare sull’aereo col reverse e ricominciava l’azione daccapo. Questa cosa mi ha segnato fin da bambino e me ne sono servito più tardi, per una lettura “avanti-indietro” dell’immagine.

Quali sono i cineasti e i “videasti” che ti hanno influenzato maggiormente?

Tra i registi sicuramente Tarkovskij, Kurosawa, Marker, Resnais, Hitchcock. Tra i videocreatori figure come Gary Hill, Bill Viola, Woody e Steina Vasulka, Thierry Kunzel, Marcel Odenbach, Joëlle De La Casinère, Zbigniew Rybczynski, Gianni Toti…

Hai mai pensato di realizzare un film totalmente narrativo, magari un lungometraggio, seppure con elementi sperimentali?

Quando guardo i miei video trovo molte narrazioni, ma senza testo. La trama è spesso suggerita e c’è la colonna sonora che funziona da colonna vertebrale narrativa. Ma devo dire che mi esprimo meglio nelle opere di breve durata e ho sempre avuto difficoltà a raccontare storie in maniera tradizionale, con un inizio, uno sviluppo e una fine, inoltre non ho mai imparato a dirigere degli attori, cosa fondamentale per la realizzazione di un lungometraggio a soggetto. Spero comunque che da qui a qualche anno possa mettere in piedi una produzione per finanziare un lungometraggio sperimentale.

Una delle tue caratteristiche è che hai sempre girato i tuoi lavori in giro per il mondo, con un’attenzione per il paesaggio naturale e antropologico. Da cosa nasce questa tua vocazione nomade?

In Juste le temps del 1983 il paesaggio trasformato appariva come uno degli attori di una narrazione embrionale, che costituisce questo video sperimentale montato come un film. I paesaggi attraversati sono come dei libri per me da decifrare e anche come degli spartiti musicali dove l’uomo può ritrovare la sua storia, un luogo di proiezione del sé. Il paesaggio è anche una materia caricata di un potenziale inesauribile per lo sguardo, per la comunicazione e la condivisione delle emozioni.Mi sento un po’ come l’ebreo errante della videoarte, ho cominciato a viaggiare dal 1984 perché mi hanno invitato a presentare i miei lavori all’estero, ma se viaggiare trent’anni fa era una piccola avventura, oggi tutti viaggiano, gli aerei sono pieni di vacanzieri e pensionati Se dovessi parlare della mia attrazione per lo spaesamento e per l’incontro con le altre culture, dovrei confessare che più avanzo con l’età e più tento di rapportarmi alle persone che incrocio nei miei viaggi, soprattutto di restituirne l’immagine più vivida possibile. Credo di essere alla ricerca della vita stessa.

C’è un paese al quale ti senti più legato di un altro?

L’Italia è certamente il paese al quale sono più attaccato, non è il paese dove io voglio filmare per il momento, ma è quello che parla direttamente alla mia anima. La Cina mi ha ammaliato e lo si può vedere in opere come 7 visions fugitives o Canton la Chinoise (co-realizzato con Rob Rombout). Ma cosa dire del Giappone se non che è altrettanto affascinante? Io mi sorprendo sempre della distanza che mi separa dai giapponesi così come dai cinesi. Ho girato molto nel Sudamerica, in Cile per esempio, paese dove avrei voluto stabilirmi. Credo che si ami un paese soprattutto per l’attaccamento provato verso le persone, ed è il caso del Cile appunto.

Qual è oggi il tuo rapporto con il sistema e il mercato dell’arte contemporanea?

Non ho buone relazioni col sistema e ho pochi rapporti col mercato, malgrado abbia una galleria in Lussemburgo, Lucien Schweitzer, che si occupa con cura del mio lavoro. L’eccessivo valore attribuito a certe opere è insopportabile, delirante, stupido, ingiusto. Come dice Raphaël Jodeau, una crosta venduta cara, resta sempre una crosta…

I MAESTRI DELLA SPERIMENTAZIONE/6

ROBERT CAHEN

MANIPOLARE LE IMMAGINI DEL MONDO

di Bruno Di Marino

C’è un video di Robert Cahen del 1993, intitolato Voyage d’Hiver, che ben sintetizza la poetica di questo grande creatore di immagini, prossimo alla soglia dei 70 anni: è un lavoro girato nell’Antartide e basato quindi su un paesaggio perennemente uniforme, caratterizzato da un’infinita superficie bianca; da questo vuoto, gradualmente, in una delle sequenze più rivelatrici, affiorano due figure umane, avvolte nelle tute termiche colorate. E poi, ancora, ecco altri elementi minimali, fino all’emergere del mare ghiacciato, degli iceberg, come fosse un’epifania. L’artista (e videoartista, si sarebbe detto un tempo) francese – che vive ancora oggi a Mulhouse (in Alsazia), dove è cresciuto fin da piccolo – ha sempre lavorato su questa incredibile esplorazione/immersione del/nel reale, amplificando emozionalmente dettagli ed eventi apparentemente banali, alla ricerca di una drammaturgia visiva che si costruisce lentamente, proprio come una partitura musicale, in crescendo, rivelando poeticamente elementi del paesaggio, naturale ma anche umano. La musica è solo uno dei tanti paralleli possibili, dal momento che Cahen nasce come compositore ma ben presto abbandona le sperimentazioni sul suono per dedicarsi a quelle sull’immagine. Poi c’è il rapporto con la pittura, perfino con la scultura: si è parlato spesso di un uso quasi scultoreo del video, di una manipolazione della materia elettronica – prima analogica e poi digitale – ottenuta innanzitutto attraverso un’alterazione temporale, l’uso straniante ed emozionale del ralenti.

Cahen è sicuramente un pioniere dell’immagine elettronica post-prodotta, poiché non ha mai attraversato una fase archeologica e concettuale del video, quando cioè il videotape aveva solo il potere di documentare mediante immagini, ma non ancora di modificare le immagini stesse, come sarebbe poi avvenuto in seguito grazie all’evoluzione tecnologia. In questo senso Cahen si è mosso sulla stessa linea di Paik, Viola, i Vasulka ed altri. Il suo primo lavoro in elettronica del 1973, L’Invitation au voyage, è già a colori ed è intriso di suggestioni narrative. Parallelamente ai video, Cahen gira in 16mm alcuni suoi film, a cominciare da Portrait de famille (1971), passando per l’emozionante Karine (1976), che racconta la trasformazione di una ragazza basandosi solo su fotografie, o lo strutturalista Arret sur marche (1979): sono opere in bianco e nero che è piuttosto illuminante rivedere e mettere a confronto con i suoi videotape, per coglierne elementi di continuità. Ad agevolare questa duplice lettura ci pensa un prezioso cofanetto in 2 dvd dal titolo Robert Cahen Films + Videos 1973-2007, distribuito qualche anno da da Ecart Production e contenente anche un cd audio con alcune sue composizioni sonore dei primi anni ’70.

Tra i lavori video, attraverso i quali Cahen ha cominciato a delineare un suo stile personale, ricordiamo L’entr’aperçu (1980), Juste le temps (1983), ma anche opere che si ricollegano ai suoi interessi musicali, quali Boulez-Répons (1985), documentazione creativa con il grande compositore francese che dirige la sua opera più famosa (Répons, appunto) o la sinfonia visiva Hong Kong Song (1989). E, a partire dagli anni ’80, Cahen allarga anche il suo immaginario geografico: dal Cile (Chili Impressions, 1989) alla Cina (7 Visions fugitives, 1995), dal Giappone (Corps Flottants, 1997) al Medio Oriente (Sanaa, passages en noir, 2007) e così via. Alcuni di essi hanno anche una versione installativa, poiché nel frattempo – siamo a metà degli anni ’90 – l’artista ha deciso, senza abbandonare la sua vocazione di autore “monocanale”, di dedicarsi anche alle videoinstallazioni (tra di esse: Tombe, Traverses, Paysage d’hiver), facendosi conoscere nel mondo dell’arte contemporanea da cui – in compagnia di altri videasti storici – era rimasto escluso.

Ma Cahen ha saputo anche confrontarsi con la televisione, realizzando alcuni lavori su committenza e rinnovando a modo suo il rapporto tra i due medium, disattendendo in parte la celebre definizione di Paik «VT is not TV» (il videotape non è la televisione). Nel 1984 realizza insieme a Stéphan Huter e Alain Longuet, le Cartes postales vidéo (450 intervalli di 30 secondi ciascuno per il piccolo schermo, basati sul fermo immagine e sul suo sblocco inaspettato), mentre nel 1990 racconta per immagini, mediante una serie di trovate audiovisive, 16 famose opere incluse nella collezione del Musée d’Art Moderne del Centre Pompidou.

Da poco l’artista è reduce da una grande personale dal titolo Entrevoir, allestita al Musée d’Art Moderne et Contemporaine di Strasburgo che ha richiesto due anni di lavoro e la creazione di otto nuove opere, soprattutto installazioni video. Ma ha anche partecipato a un’importante collettiva presso la Fondation Fernet Branca di Saint Louis, sempre in France, che raccoglieva sette artisti della sua generazione (Ansel, Bey, Dyminski, Latuner, Nussbaum e Roesz), in gran parte pittori, le cui opere sono state suddivise per decenni. Cahen, inoltre, sta progettando un lungometraggio che assembla i backstage dei suoi lavori dalle Cartes Postale in poi, realizzati in giro per il mondo: di questo progetto l’artista francese dice: «Sarà una sorta di saga del mio incontro con l’umanità! Un lavoro lungo e difficile, poiché saranno necessari due o tre anni di tempo, e siccome non lavoro mai solo, ho bisogno di un montatore di alto livello che possa condividere questo grande viaggio insieme a me».

QUANDO IL VIDEO ERA UN’“ART A’ PART”

Conversazione con Robert Cahen

Tu vieni da una formazione musicale, quanto è stato importante per te scoprire l’arte elettronica visiva possedendo una particolare sensibilità e creatività di carattere sonoro?

La musica concreta, a partire dalla sua comparsa, tra il 1969 e il 1971 ha avuto una grande importanza per il mio passaggio dal mondo della musica a quello dell’immagine. E’ l’elettronica che mi ha portato al video. Nel 1968 ancora non sapevo che era possibile intervenire sulle immagini; del resto non conoscevo esattamente come funzionasse la televisione. I bambini non si pongono la questione, non sanno come l’immagine televisiva possa nascere di fronte a loro, su uno schermo. E’ di un’evidenza straordinaria. Non è meraviglioso ricevere immagini che provengono da chissà dove, che si trasformano e si concretizzano davanti ai propri occhi?

Quindi il video è stata una vera e propria rivelazione per te…

Penso di essermi interessato all’immagine elettronica quando ho scoperto la possibilità di manipolarla, donarle una vita particolare, qualcosa che per me è molto vicino alla magia. Durante tutti i miei studi e anche al termine del mio stage nel 1971, quando sono entrato nel Groupe de Recherches Musicales (GRM), mi interrogavo continuamente sulla scelta del tipo di creazione che sarebbe stata migliore per me: avrei dovuto fare della musica? Creare delle immagini? Dipingere? Non riuscivo a capire cosa mi si prospettava. Quando si sta compiendo un gesto non si ha il tempo di riflettere su di esso. Solo oggi ho la possibilità di ripensare a quello che ho fatto.

Quando hai iniziato a utilizzare il videotape nei primi anni ’70 qual era la situazione delle arti elettroniche In Francia?

Sono entrato negli studi dove si realizzavano gli effetti visivi nel dipartimento di ricerche dell’ORTF (diretto da Pierre Schaeffer, l’inventore, il padre della musica concreta) per lavorare sull’immagine elettronica, senza chiedermi se stessi facendo della videoarte o del cinema elettronico. Volevo solo appropriarmi degli strumenti a mia disposizione e mi sono lanciato senza pensarci, semplicemente per il desiderio di esprimermi, più esattamente per creare impressioni, suscitare emozioni. All’epoca, negli anni ’70, il video aveva un carattere molto militante in Francia ma io ero nel dipartimento di ricerche della ORTF e mi sono trovato nel mezzo di un’«art à part». Provenendo dalla provincia alsaziana, avevo appena terminato il servizio di leva ed ero ancora inesperto della vita. Avevo 25 anni e dovevo imparare tutto. Così il 1968 è passato sopra la mia testa.

Cosa hai imparato dal lavoro di elaborazione del suono e dell’immagine?

Al di là del côté estetico, ciò che mi interessava era il côté emozionale, comprendere ciò che – sotto il profilo dell’immagine e del suono – provoca delle emozioni e imparare a restituirle. Con la musica concreta ho scoperto il potere dell’ascolto. Un ascolto particolare, quello dei suoni decontestualizzati dalla loro causalità. Tutto ciò mi ha aperto un nuovo punto di vista sul mondo, allargando considerevolmente il mio campo creativo. La musica concreta porta in sé qualcosa di innovativo, alla stessa maniera in cui la manipolazione dell’immagine elettronica ci conduce in un mondo dove la narrazione può declinarsi secondo altre modalità.

Parallelamente al tuo avvicinamento alla videoarte hai girato alcuni film sperimentali in 16mm, come hai vissuto all’epoca la differenza tra il medium filmico e quello elettronico?

Negli anni 70 c’erano poche videocamere portatili disponibili a Parigi per girare immagini in esterno, nella natura, era dunque necessario filmare in 16mm. Anche per realizzare immagini rallentate usavo una cinepresa a grande velocità (200 immagini al secondo) e queste immagini hanno trovato posto nel mio primo video L’Invitation au voyage. Il passaggio dal medium filmico a quello video è avvenuto in modo molto naturale per me. Non c’era una vera barriera tecnologica, solo la necessità di comprendere il linguaggio per poterlo adattare al proprio progetto. Non era il medium a determinare il mio lavoro, ma il soggetto, il contenuto, Certo, il video consente di vedere subito il risultato delle proprie sperimentazioni, o di reagire come il pittore che può far sviluppare il colore secondo il proprio volere.

Hai frequentato e conoscevi qualche autore del cinema sperimentale francese degli anni ’60 e ’70?

Ho frequentato Jean Paul Fargier, Maria Klonaris, Yann Bauvais, Thierry Kuntzel, ma ho conosciuto anche autori internazionali come Norman McLaren o Artavazd Peleshyan… Sono stato molto amico di Patrick Bokanowski, che è uno dei grandi realizzatori di cinema sperimentale (e di animazione). Durante le nostre discussioni, amichevoli e bizzarre, abbiamo tentato di cercare una soluzione al seguente problema: come filmare un oggetto, una persona mentre precipita in caduta libera? Come riuscire a seguire questo oggetto durante la sua traiettoria e rendere conto del suo pesomettendolo in una sorta di assenza di gravità? Patrick si domandava soprattutto quale attore potesse esprimere ciò che passa nella testa di colui che cade. Io cercavo di trovare la soluzione tecnica alla ripresa di questa caduta (senza sapere ancora che il “vedere” predominava sull’effetto).

Anni dopo, nel 1997, hai realizzato una delle tue prime installazioni video, Tombe,con una serie di oggetti che cadono lentamente nell’acqua…

Ricordo ancora come ho scelto il gran numero di oggetti da immergere in acqua, nella mia casa di Mulhouse, prendendo utensili da cucina, giocattoli di mio figlio Alexandre – tra cui una locomotiva! –, lenzuola del suo piccolo letto, vestiti, giornali, ecc. e riempiendo interi cartoni da portare in una piscina nei dintorni di Strasburgo dove ho realizzato le riprese. Con questa installazione ho ritrovato le mie ossessioni di sempre. Senza alterare tecnicamente il tempo, la densità dell’acqua mi offriva un ralenti naturale, una “ritenuta di energia”. E il tempo prodotto dal ralenti offre a tutti la possibilità di vedere con un occhio nuovo oggetti visti mille volte, ma forse mai davvero osservati.

Insomma la modificazione temporale, soprattutto attraverso il ralenti, è, appunto, uno degli elementi centrali della tua estetica video…Poi vi sono altri concetti ad esso collegati come quelli di “durata” e di “velocità”.

Alcuni miei video come Juste le Temps e Hong Kong Song, rappresentano una risposta a questa problematica. Dei critici illuminati hanno citato queste opere in relazione con il pensiero di Paul Virilio. E’ stato invece con l’ausilio delle immagini in movimento che ho definito la mia posizione critica e filosofica! Le tematiche che affronto durante il mio lavoro sono collegate alla mia storia personale: è Tarkovskij che ha scritto in Scolpire il tempo che tutti portiamo dentro di noi storie degne di diventare oggetti filmici. La scelta del ralenti, per esempio, che attraversa tutta la mia opera, resta uno dei punti primordiali della mia scrittura: tento di raccontare, tra le altre cose, ciò che non si vede, l’invisibile, ma anche, in senso più vasto, di proporre una nuova partizione, una lettura aperta per lo spettatore che si proietta nelle immagini rallentate e che può costruirsi la propria storia. C’è anche la tensione, la suspence di ciò che deve arrivare, contenuta nel ralenti. E poi, come diceva Roland Barthes ne La camera chiara, c’è il «rallentare per aver il tempo infine di vedere».

Che ricordi hai del tuo primo video L’Invitation au voyage? 

Ho tradotto visivamente le riflessioni sul tempo, sul passaggio e sulla trasformazione delle immagini. E’ stata un’avventura, così ho potuto apprendere cosa significasse la produzione di un film, lavorare con una piccola troupe, immergersi nella ricerca. Credo che a quell’epoca per lavorare avessi un approccio molto “schaefferiano”, ovvero non servirmi delle macchine per quello che loro danno, ma utilizzarle, al contrario, per cercare di ricavare da esse qualche altra cosa. Bisognava inizialmente avere delle idee brillanti. Come diceva Schaeffer citando una frase di Picasso: «Trovare subito, cercare in seguito». Considero L’Invitation au voyage come un esperimento, il lavoro di un giovane autore che scopre un nuovo linguaggio al quale applica la propria poetica. Ho messo un sacco di cose, ricordi, emozioni che facevano parte della mia storia personale. Ho scelto foto, quelle delle persone che amavo, di un viaggio in Italia molto importante per me, ho colorizzato queste immagini in bianco e nero con l’aiuto di un apparecchio per effetti speciali detto “universale”, inventato dal settore immagini del Service de la Recherche. Insomma, vi ho messo dentro parte della mia esistenza dell’epoca.

Quando è stato il momento in cui la tecnologia ti ha permesso di realizzare davvero le cose che volevi e nel modo in cui le volevi?

La tecnologia non è mai stata un problema per me e i mezzi tecnici degli anni ’70 mi hanno consentito di trascrivere le impressioni che cercavo di tradurre in immagini nel modo migliore, senza nulla da invidiare alla tecnologia odierna. C’è da dire che, all’inizio dell’analogico, eravamo obbligati a maggiori limitazioni tecniche, mentre negli anni ’90 le tecniche sono divenute più efficaci e hanno facilitato la trasformazione dell’immagine, apportando una qualità maggiore. 

Negli anni ’80 hai realizzato le cartes postales con una committenza televisiva. Pensi che il rapporto tra sperimentazione video e televisione sia ancora possibile o gli spazi in Francia, così come nel resto del mondo, si sono ristretti?

In Francia in quel periodo i canali televisivi e l’INA (Institut National de l’Audiovisuel) sostenevano programmi di ricerca. Tutto ciò permise la produzione di opere sperimentali, qualcosa che oggi è praticamente impossibile. Si segue solo la legge dell’audience e ormai la maggior parte dei programmi televisivi sono format. C’è davvero poca libertà per i creatori. Sarebbe necessario che i canali del servizio pubblico mettessero di nuovo a disposizione i mezzi per la creazione e per la sperimentazione.

  

Hai avuto una formazione cinematografica? Ci racconti del Cahen spettatore?

Mio padre aveva fondato uno dei primi cineclub della Francia, nel 1945 a Mulhouse. Ho visto un sacco di classici. A casa avevamo un proiettore Pathé Baby. Mio fratello proiettava piccoli film muti su un lenzuolo attaccato al muro. Ricordo uno dei primi effetti da lui realizzati in diretta girando la manovella dell’apparecchio di proiezione: un uomo si apprestava a lanciarsi dall’ala di un biplano, ma mio fratello, imitando la sua voce, diceva: «Cazzo, Ho dimenticato il mio paracadute!», così lo faceva rimontare sull’aereo col reverse e ricominciava l’azione daccapo. Questa cosa mi ha segnato fin da bambino e me ne sono servito più tardi, per una lettura “avanti-indietro” dell’immagine.

Quali sono i cineasti e i “videasti” che ti hanno influenzato maggiormente?

Tra i registi sicuramente Tarkovskij, Kurosawa, Marker, Resnais, Hitchcock. Tra i videocreatori figure come Gary Hill, Bill Viola, Woody e Steina Vasulka, Thierry Kunzel, Marcel Odenbach, Joëlle De La Casinère, Zbigniew Rybczynski, Gianni Toti…

Hai mai pensato di realizzare un film totalmente narrativo, magari un lungometraggio, seppure con elementi sperimentali?

Quando guardo i miei video trovo molte narrazioni, ma senza testo. La trama è spesso suggerita e c’è la colonna sonora che funziona da colonna vertebrale narrativa. Ma devo dire che mi esprimo meglio nelle opere di breve durata e ho sempre avuto difficoltà a raccontare storie in maniera tradizionale, con un inizio, uno sviluppo e una fine, inoltre non ho mai imparato a dirigere degli attori, cosa fondamentale per la realizzazione di un lungometraggio a soggetto. Spero comunque che da qui a qualche anno possa mettere in piedi una produzione per finanziare un lungometraggio sperimentale.

Una delle tue caratteristiche è che hai sempre girato i tuoi lavori in giro per il mondo, con un’attenzione per il paesaggio naturale e antropologico. Da cosa nasce questa tua vocazione nomade?

In Juste le temps del 1983 il paesaggio trasformato appariva come uno degli attori di una narrazione embrionale, che costituisce questo video sperimentale montato come un film. I paesaggi attraversati sono come dei libri per me da decifrare e anche come degli spartiti musicali dove l’uomo può ritrovare la sua storia, un luogo di proiezione del sé. Il paesaggio è anche una materia caricata di un potenziale inesauribile per lo sguardo, per la comunicazione e la condivisione delle emozioni.Mi sento un po’ come l’ebreo errante della videoarte, ho cominciato a viaggiare dal 1984 perché mi hanno invitato a presentare i miei lavori all’estero, ma se viaggiare trent’anni fa era una piccola avventura, oggi tutti viaggiano, gli aerei sono pieni di vacanzieri e pensionati Se dovessi parlare della mia attrazione per lo spaesamento e per l’incontro con le altre culture, dovrei confessare che più avanzo con l’età e più tento di rapportarmi alle persone che incrocio nei miei viaggi, soprattutto di restituirne l’immagine più vivida possibile. Credo di essere alla ricerca della vita stessa.

C’è un paese al quale ti senti più legato di un altro?

L’Italia è certamente il paese al quale sono più attaccato, non è il paese dove io voglio filmare per il momento, ma è quello che parla direttamente alla mia anima. La Cina mi ha ammaliato e lo si può vedere in opere come 7 visions fugitives o Canton la Chinoise (co-realizzato con Rob Rombout). Ma cosa dire del Giappone se non che è altrettanto affascinante? Io mi sorprendo sempre della distanza che mi separa dai giapponesi così come dai cinesi. Ho girato molto nel Sudamerica, in Cile per esempio, paese dove avrei voluto stabilirmi. Credo che si ami un paese soprattutto per l’attaccamento provato verso le persone, ed è il caso del Cile appunto.

Qual è oggi il tuo rapporto con il sistema e il mercato dell’arte contemporanea?

Non ho buone relazioni col sistema e ho pochi rapporti col mercato, malgrado abbia una galleria in Lussemburgo, Lucien Schweitzer, che si occupa con cura del mio lavoro. L’eccessivo valore attribuito a certe opere è insopportabile, delirante, stupido, ingiusto. Come dice Raphaël Jodeau, una crosta venduta cara, resta sempre una crosta…

I MAESTRI DELLA SPERIMENTAZIONE/6

ROBERT CAHEN

MANIPOLARE LE IMMAGINI DEL MONDO

di Bruno Di Marino

C’è un video di Robert Cahen del 1993, intitolato Voyage d’Hiver, che ben sintetizza la poetica di questo grande creatore di immagini, prossimo alla soglia dei 70 anni: è un lavoro girato nell’Antartide e basato quindi su un paesaggio perennemente uniforme, caratterizzato da un’infinita superficie bianca; da questo vuoto, gradualmente, in una delle sequenze più rivelatrici, affiorano due figure umane, avvolte nelle tute termiche colorate. E poi, ancora, ecco altri elementi minimali, fino all’emergere del mare ghiacciato, degli iceberg, come fosse un’epifania. L’artista (e videoartista, si sarebbe detto un tempo) francese – che vive ancora oggi a Mulhouse (in Alsazia), dove è cresciuto fin da piccolo – ha sempre lavorato su questa incredibile esplorazione/immersione del/nel reale, amplificando emozionalmente dettagli ed eventi apparentemente banali, alla ricerca di una drammaturgia visiva che si costruisce lentamente, proprio come una partitura musicale, in crescendo, rivelando poeticamente elementi del paesaggio, naturale ma anche umano. La musica è solo uno dei tanti paralleli possibili, dal momento che Cahen nasce come compositore ma ben presto abbandona le sperimentazioni sul suono per dedicarsi a quelle sull’immagine. Poi c’è il rapporto con la pittura, perfino con la scultura: si è parlato spesso di un uso quasi scultoreo del video, di una manipolazione della materia elettronica – prima analogica e poi digitale – ottenuta innanzitutto attraverso un’alterazione temporale, l’uso straniante ed emozionale del ralenti.

Cahen è sicuramente un pioniere dell’immagine elettronica post-prodotta, poiché non ha mai attraversato una fase archeologica e concettuale del video, quando cioè il videotape aveva solo il potere di documentare mediante immagini, ma non ancora di modificare le immagini stesse, come sarebbe poi avvenuto in seguito grazie all’evoluzione tecnologia. In questo senso Cahen si è mosso sulla stessa linea di Paik, Viola, i Vasulka ed altri. Il suo primo lavoro in elettronica del 1973, L’Invitation au voyage, è già a colori ed è intriso di suggestioni narrative. Parallelamente ai video, Cahen gira in 16mm alcuni suoi film, a cominciare da Portrait de famille (1971), passando per l’emozionante Karine (1976), che racconta la trasformazione di una ragazza basandosi solo su fotografie, o lo strutturalista Arret sur marche (1979): sono opere in bianco e nero che è piuttosto illuminante rivedere e mettere a confronto con i suoi videotape, per coglierne elementi di continuità. Ad agevolare questa duplice lettura ci pensa un prezioso cofanetto in 2 dvd dal titolo Robert Cahen Films + Videos 1973-2007, distribuito qualche anno da da Ecart Production e contenente anche un cd audio con alcune sue composizioni sonore dei primi anni ’70.

Tra i lavori video, attraverso i quali Cahen ha cominciato a delineare un suo stile personale, ricordiamo L’entr’aperçu (1980), Juste le temps (1983), ma anche opere che si ricollegano ai suoi interessi musicali, quali Boulez-Répons (1985), documentazione creativa con il grande compositore francese che dirige la sua opera più famosa (Répons, appunto) o la sinfonia visiva Hong Kong Song (1989). E, a partire dagli anni ’80, Cahen allarga anche il suo immaginario geografico: dal Cile (Chili Impressions, 1989) alla Cina (7 Visions fugitives, 1995), dal Giappone (Corps Flottants, 1997) al Medio Oriente (Sanaa, passages en noir, 2007) e così via. Alcuni di essi hanno anche una versione installativa, poiché nel frattempo – siamo a metà degli anni ’90 – l’artista ha deciso, senza abbandonare la sua vocazione di autore “monocanale”, di dedicarsi anche alle videoinstallazioni (tra di esse: Tombe, Traverses, Paysage d’hiver), facendosi conoscere nel mondo dell’arte contemporanea da cui – in compagnia di altri videasti storici – era rimasto escluso.

Ma Cahen ha saputo anche confrontarsi con la televisione, realizzando alcuni lavori su committenza e rinnovando a modo suo il rapporto tra i due medium, disattendendo in parte la celebre definizione di Paik «VT is not TV» (il videotape non è la televisione). Nel 1984 realizza insieme a Stéphan Huter e Alain Longuet, le Cartes postales vidéo (450 intervalli di 30 secondi ciascuno per il piccolo schermo, basati sul fermo immagine e sul suo sblocco inaspettato), mentre nel 1990 racconta per immagini, mediante una serie di trovate audiovisive, 16 famose opere incluse nella collezione del Musée d’Art Moderne del Centre Pompidou.

Da poco l’artista è reduce da una grande personale dal titolo Entrevoir, allestita al Musée d’Art Moderne et Contemporaine di Strasburgo che ha richiesto due anni di lavoro e la creazione di otto nuove opere, soprattutto installazioni video. Ma ha anche partecipato a un’importante collettiva presso la Fondation Fernet Branca di Saint Louis, sempre in France, che raccoglieva sette artisti della sua generazione (Ansel, Bey, Dyminski, Latuner, Nussbaum e Roesz), in gran parte pittori, le cui opere sono state suddivise per decenni. Cahen, inoltre, sta progettando un lungometraggio che assembla i backstage dei suoi lavori dalle Cartes Postale in poi, realizzati in giro per il mondo: di questo progetto l’artista francese dice: «Sarà una sorta di saga del mio incontro con l’umanità! Un lavoro lungo e difficile, poiché saranno necessari due o tre anni di tempo, e siccome non lavoro mai solo, ho bisogno di un montatore di alto livello che possa condividere questo grande viaggio insieme a me».

QUANDO IL VIDEO ERA UN’“ART A’ PART”

Conversazione con Robert Cahen

Tu vieni da una formazione musicale, quanto è stato importante per te scoprire l’arte elettronica visiva possedendo una particolare sensibilità e creatività di carattere sonoro?

La musica concreta, a partire dalla sua comparsa, tra il 1969 e il 1971 ha avuto una grande importanza per il mio passaggio dal mondo della musica a quello dell’immagine. E’ l’elettronica che mi ha portato al video. Nel 1968 ancora non sapevo che era possibile intervenire sulle immagini; del resto non conoscevo esattamente come funzionasse la televisione. I bambini non si pongono la questione, non sanno come l’immagine televisiva possa nascere di fronte a loro, su uno schermo. E’ di un’evidenza straordinaria. Non è meraviglioso ricevere immagini che provengono da chissà dove, che si trasformano e si concretizzano davanti ai propri occhi?

Quindi il video è stata una vera e propria rivelazione per te…

Penso di essermi interessato all’immagine elettronica quando ho scoperto la possibilità di manipolarla, donarle una vita particolare, qualcosa che per me è molto vicino alla magia. Durante tutti i miei studi e anche al termine del mio stage nel 1971, quando sono entrato nel Groupe de Recherches Musicales (GRM), mi interrogavo continuamente sulla scelta del tipo di creazione che sarebbe stata migliore per me: avrei dovuto fare della musica? Creare delle immagini? Dipingere? Non riuscivo a capire cosa mi si prospettava. Quando si sta compiendo un gesto non si ha il tempo di riflettere su di esso. Solo oggi ho la possibilità di ripensare a quello che ho fatto.

Quando hai iniziato a utilizzare il videotape nei primi anni ’70 qual era la situazione delle arti elettroniche In Francia?

Sono entrato negli studi dove si realizzavano gli effetti visivi nel dipartimento di ricerche dell’ORTF (diretto da Pierre Schaeffer, l’inventore, il padre della musica concreta) per lavorare sull’immagine elettronica, senza chiedermi se stessi facendo della videoarte o del cinema elettronico. Volevo solo appropriarmi degli strumenti a mia disposizione e mi sono lanciato senza pensarci, semplicemente per il desiderio di esprimermi, più esattamente per creare impressioni, suscitare emozioni. All’epoca, negli anni ’70, il video aveva un carattere molto militante in Francia ma io ero nel dipartimento di ricerche della ORTF e mi sono trovato nel mezzo di un’«art à part». Provenendo dalla provincia alsaziana, avevo appena terminato il servizio di leva ed ero ancora inesperto della vita. Avevo 25 anni e dovevo imparare tutto. Così il 1968 è passato sopra la mia testa.

Cosa hai imparato dal lavoro di elaborazione del suono e dell’immagine?

Al di là del côté estetico, ciò che mi interessava era il côté emozionale, comprendere ciò che – sotto il profilo dell’immagine e del suono – provoca delle emozioni e imparare a restituirle. Con la musica concreta ho scoperto il potere dell’ascolto. Un ascolto particolare, quello dei suoni decontestualizzati dalla loro causalità. Tutto ciò mi ha aperto un nuovo punto di vista sul mondo, allargando considerevolmente il mio campo creativo. La musica concreta porta in sé qualcosa di innovativo, alla stessa maniera in cui la manipolazione dell’immagine elettronica ci conduce in un mondo dove la narrazione può declinarsi secondo altre modalità.

Parallelamente al tuo avvicinamento alla videoarte hai girato alcuni film sperimentali in 16mm, come hai vissuto all’epoca la differenza tra il medium filmico e quello elettronico?

Negli anni 70 c’erano poche videocamere portatili disponibili a Parigi per girare immagini in esterno, nella natura, era dunque necessario filmare in 16mm. Anche per realizzare immagini rallentate usavo una cinepresa a grande velocità (200 immagini al secondo) e queste immagini hanno trovato posto nel mio primo video L’Invitation au voyage. Il passaggio dal medium filmico a quello video è avvenuto in modo molto naturale per me. Non c’era una vera barriera tecnologica, solo la necessità di comprendere il linguaggio per poterlo adattare al proprio progetto. Non era il medium a determinare il mio lavoro, ma il soggetto, il contenuto, Certo, il video consente di vedere subito il risultato delle proprie sperimentazioni, o di reagire come il pittore che può far sviluppare il colore secondo il proprio volere.

Hai frequentato e conoscevi qualche autore del cinema sperimentale francese degli anni ’60 e ’70?

Ho frequentato Jean Paul Fargier, Maria Klonaris, Yann Bauvais, Thierry Kuntzel, ma ho conosciuto anche autori internazionali come Norman McLaren o Artavazd Peleshyan… Sono stato molto amico di Patrick Bokanowski, che è uno dei grandi realizzatori di cinema sperimentale (e di animazione). Durante le nostre discussioni, amichevoli e bizzarre, abbiamo tentato di cercare una soluzione al seguente problema: come filmare un oggetto, una persona mentre precipita in caduta libera? Come riuscire a seguire questo oggetto durante la sua traiettoria e rendere conto del suo pesomettendolo in una sorta di assenza di gravità? Patrick si domandava soprattutto quale attore potesse esprimere ciò che passa nella testa di colui che cade. Io cercavo di trovare la soluzione tecnica alla ripresa di questa caduta (senza sapere ancora che il “vedere” predominava sull’effetto).

Anni dopo, nel 1997, hai realizzato una delle tue prime installazioni video, Tombe,con una serie di oggetti che cadono lentamente nell’acqua…

Ricordo ancora come ho scelto il gran numero di oggetti da immergere in acqua, nella mia casa di Mulhouse, prendendo utensili da cucina, giocattoli di mio figlio Alexandre – tra cui una locomotiva! –, lenzuola del suo piccolo letto, vestiti, giornali, ecc. e riempiendo interi cartoni da portare in una piscina nei dintorni di Strasburgo dove ho realizzato le riprese. Con questa installazione ho ritrovato le mie ossessioni di sempre. Senza alterare tecnicamente il tempo, la densità dell’acqua mi offriva un ralenti naturale, una “ritenuta di energia”. E il tempo prodotto dal ralenti offre a tutti la possibilità di vedere con un occhio nuovo oggetti visti mille volte, ma forse mai davvero osservati.

Insomma la modificazione temporale, soprattutto attraverso il ralenti, è, appunto, uno degli elementi centrali della tua estetica video…Poi vi sono altri concetti ad esso collegati come quelli di “durata” e di “velocità”.

Alcuni miei video come Juste le Temps e Hong Kong Song, rappresentano una risposta a questa problematica. Dei critici illuminati hanno citato queste opere in relazione con il pensiero di Paul Virilio. E’ stato invece con l’ausilio delle immagini in movimento che ho definito la mia posizione critica e filosofica! Le tematiche che affronto durante il mio lavoro sono collegate alla mia storia personale: è Tarkovskij che ha scritto in Scolpire il tempo che tutti portiamo dentro di noi storie degne di diventare oggetti filmici. La scelta del ralenti, per esempio, che attraversa tutta la mia opera, resta uno dei punti primordiali della mia scrittura: tento di raccontare, tra le altre cose, ciò che non si vede, l’invisibile, ma anche, in senso più vasto, di proporre una nuova partizione, una lettura aperta per lo spettatore che si proietta nelle immagini rallentate e che può costruirsi la propria storia. C’è anche la tensione, la suspence di ciò che deve arrivare, contenuta nel ralenti. E poi, come diceva Roland Barthes ne La camera chiara, c’è il «rallentare per aver il tempo infine di vedere».

Che ricordi hai del tuo primo video L’Invitation au voyage? 

Ho tradotto visivamente le riflessioni sul tempo, sul passaggio e sulla trasformazione delle immagini. E’ stata un’avventura, così ho potuto apprendere cosa significasse la produzione di un film, lavorare con una piccola troupe, immergersi nella ricerca. Credo che a quell’epoca per lavorare avessi un approccio molto “schaefferiano”, ovvero non servirmi delle macchine per quello che loro danno, ma utilizzarle, al contrario, per cercare di ricavare da esse qualche altra cosa. Bisognava inizialmente avere delle idee brillanti. Come diceva Schaeffer citando una frase di Picasso: «Trovare subito, cercare in seguito». Considero L’Invitation au voyage come un esperimento, il lavoro di un giovane autore che scopre un nuovo linguaggio al quale applica la propria poetica. Ho messo un sacco di cose, ricordi, emozioni che facevano parte della mia storia personale. Ho scelto foto, quelle delle persone che amavo, di un viaggio in Italia molto importante per me, ho colorizzato queste immagini in bianco e nero con l’aiuto di un apparecchio per effetti speciali detto “universale”, inventato dal settore immagini del Service de la Recherche. Insomma, vi ho messo dentro parte della mia esistenza dell’epoca.

Quando è stato il momento in cui la tecnologia ti ha permesso di realizzare davvero le cose che volevi e nel modo in cui le volevi?

La tecnologia non è mai stata un problema per me e i mezzi tecnici degli anni ’70 mi hanno consentito di trascrivere le impressioni che cercavo di tradurre in immagini nel modo migliore, senza nulla da invidiare alla tecnologia odierna. C’è da dire che, all’inizio dell’analogico, eravamo obbligati a maggiori limitazioni tecniche, mentre negli anni ’90 le tecniche sono divenute più efficaci e hanno facilitato la trasformazione dell’immagine, apportando una qualità maggiore. 

Negli anni ’80 hai realizzato le cartes postales con una committenza televisiva. Pensi che il rapporto tra sperimentazione video e televisione sia ancora possibile o gli spazi in Francia, così come nel resto del mondo, si sono ristretti?

In Francia in quel periodo i canali televisivi e l’INA (Institut National de l’Audiovisuel) sostenevano programmi di ricerca. Tutto ciò permise la produzione di opere sperimentali, qualcosa che oggi è praticamente impossibile. Si segue solo la legge dell’audience e ormai la maggior parte dei programmi televisivi sono format. C’è davvero poca libertà per i creatori. Sarebbe necessario che i canali del servizio pubblico mettessero di nuovo a disposizione i mezzi per la creazione e per la sperimentazione.

  

Hai avuto una formazione cinematografica? Ci racconti del Cahen spettatore?

Mio padre aveva fondato uno dei primi cineclub della Francia, nel 1945 a Mulhouse. Ho visto un sacco di classici. A casa avevamo un proiettore Pathé Baby. Mio fratello proiettava piccoli film muti su un lenzuolo attaccato al muro. Ricordo uno dei primi effetti da lui realizzati in diretta girando la manovella dell’apparecchio di proiezione: un uomo si apprestava a lanciarsi dall’ala di un biplano, ma mio fratello, imitando la sua voce, diceva: «Cazzo, Ho dimenticato il mio paracadute!», così lo faceva rimontare sull’aereo col reverse e ricominciava l’azione daccapo. Questa cosa mi ha segnato fin da bambino e me ne sono servito più tardi, per una lettura “avanti-indietro” dell’immagine.

Quali sono i cineasti e i “videasti” che ti hanno influenzato maggiormente?

Tra i registi sicuramente Tarkovskij, Kurosawa, Marker, Resnais, Hitchcock. Tra i videocreatori figure come Gary Hill, Bill Viola, Woody e Steina Vasulka, Thierry Kunzel, Marcel Odenbach, Joëlle De La Casinère, Zbigniew Rybczynski, Gianni Toti…

Hai mai pensato di realizzare un film totalmente narrativo, magari un lungometraggio, seppure con elementi sperimentali?

Quando guardo i miei video trovo molte narrazioni, ma senza testo. La trama è spesso suggerita e c’è la colonna sonora che funziona da colonna vertebrale narrativa. Ma devo dire che mi esprimo meglio nelle opere di breve durata e ho sempre avuto difficoltà a raccontare storie in maniera tradizionale, con un inizio, uno sviluppo e una fine, inoltre non ho mai imparato a dirigere degli attori, cosa fondamentale per la realizzazione di un lungometraggio a soggetto. Spero comunque che da qui a qualche anno possa mettere in piedi una produzione per finanziare un lungometraggio sperimentale.

Una delle tue caratteristiche è che hai sempre girato i tuoi lavori in giro per il mondo, con un’attenzione per il paesaggio naturale e antropologico. Da cosa nasce questa tua vocazione nomade?

In Juste le temps del 1983 il paesaggio trasformato appariva come uno degli attori di una narrazione embrionale, che costituisce questo video sperimentale montato come un film. I paesaggi attraversati sono come dei libri per me da decifrare e anche come degli spartiti musicali dove l’uomo può ritrovare la sua storia, un luogo di proiezione del sé. Il paesaggio è anche una materia caricata di un potenziale inesauribile per lo sguardo, per la comunicazione e la condivisione delle emozioni.Mi sento un po’ come l’ebreo errante della videoarte, ho cominciato a viaggiare dal 1984 perché mi hanno invitato a presentare i miei lavori all’estero, ma se viaggiare trent’anni fa era una piccola avventura, oggi tutti viaggiano, gli aerei sono pieni di vacanzieri e pensionati Se dovessi parlare della mia attrazione per lo spaesamento e per l’incontro con le altre culture, dovrei confessare che più avanzo con l’età e più tento di rapportarmi alle persone che incrocio nei miei viaggi, soprattutto di restituirne l’immagine più vivida possibile. Credo di essere alla ricerca della vita stessa.

C’è un paese al quale ti senti più legato di un altro?

L’Italia è certamente il paese al quale sono più attaccato, non è il paese dove io voglio filmare per il momento, ma è quello che parla direttamente alla mia anima. La Cina mi ha ammaliato e lo si può vedere in opere come 7 visions fugitives o Canton la Chinoise (co-realizzato con Rob Rombout). Ma cosa dire del Giappone se non che è altrettanto affascinante? Io mi sorprendo sempre della distanza che mi separa dai giapponesi così come dai cinesi. Ho girato molto nel Sudamerica, in Cile per esempio, paese dove avrei voluto stabilirmi. Credo che si ami un paese soprattutto per l’attaccamento provato verso le persone, ed è il caso del Cile appunto.

Qual è oggi il tuo rapporto con il sistema e il mercato dell’arte contemporanea?

Non ho buone relazioni col sistema e ho pochi rapporti col mercato, malgrado abbia una galleria in Lussemburgo, Lucien Schweitzer, che si occupa con cura del mio lavoro. L’eccessivo valore attribuito a certe opere è insopportabile, delirante, stupido, ingiusto. Come dice Raphaël Jodeau, una crosta venduta cara, resta sempre una crosta…

C’è un video di Robert Cahen del 1993, intitolato Voyage d’Hiver, che ben sintetizza la poetica di questo grande creatore di immagini, prossimo alla soglia dei 70 anni: è un lavoro girato nell’Antartide e basato quindi su un paesaggio perennemente uniforme, caratterizzato da un’infinita superficie bianca; da questo vuoto, gradualmente, in una delle sequenze più rivelatrici, affiorano due figure umane, avvolte nelle tute termiche colorate. E poi, ancora, ecco altri elementi minimali, fino all’emergere del mare ghiacciato, degli iceberg, come fosse un’epifania. L’artista (e videoartista, si sarebbe detto un tempo) francese – che vive ancora oggi a Mulhouse (in Alsazia), dove è cresciuto fin da piccolo – ha sempre lavorato su questa incredibile esplorazione/immersione del/nel reale, amplificando emozionalmente dettagli ed eventi apparentemente banali, alla ricerca di una drammaturgia visiva che si costruisce lentamente, proprio come una partitura musicale, in crescendo, rivelando poeticamente elementi del paesaggio, naturale ma anche umano. La musica è solo uno dei tanti paralleli possibili, dal momento che Cahen nasce come compositore ma ben presto abbandona le sperimentazioni sul suono per dedicarsi a quelle sull’immagine. Poi c’è il rapporto con la pittura, perfino con la scultura: si è parlato spesso di un uso quasi scultoreo del video, di una manipolazione della materia elettronica – prima analogica e poi digitale – ottenuta innanzitutto attraverso un’alterazione temporale, l’uso straniante ed emozionale del ralenti.

Cahen è sicuramente un pioniere dell’immagine elettronica post-prodotta, poiché non ha mai attraversato una fase archeologica e concettuale del video, quando cioè il videotape aveva solo il potere di documentare mediante immagini, ma non ancora di modificare le immagini stesse, come sarebbe poi avvenuto in seguito grazie all’evoluzione tecnologia. In questo senso Cahen si è mosso sulla stessa linea di Paik, Viola, i Vasulka ed altri. Il suo primo lavoro in elettronica del 1973, L’Invitation au voyage, è già a colori ed è intriso di suggestioni narrative. Parallelamente ai video, Cahen gira in 16mm alcuni suoi film, a cominciare da Portrait de famille (1971), passando per l’emozionante Karine (1976), che racconta la trasformazione di una ragazza basandosi solo su fotografie, o lo strutturalista Arret sur marche (1979): sono opere in bianco e nero che è piuttosto illuminante rivedere e mettere a confronto con i suoi videotape, per coglierne elementi di continuità. Ad agevolare questa duplice lettura ci pensa un prezioso cofanetto in 2 dvd dal titolo Robert Cahen Films + Videos 1973-2007, distribuito qualche anno da da Ecart Production e contenente anche un cd audio con alcune sue composizioni sonore dei primi anni ’70.

Tra i lavori video, attraverso i quali Cahen ha cominciato a delineare un suo stile personale, ricordiamo L’entr’aperçu (1980), Juste le temps (1983), ma anche opere che si ricollegano ai suoi interessi musicali, quali Boulez-Répons (1985), documentazione creativa con il grande compositore francese che dirige la sua opera più famosa (Répons, appunto) o la sinfonia visiva Hong Kong Song (1989). E, a partire dagli anni ’80, Cahen allarga anche il suo immaginario geografico: dal Cile (Chili Impressions, 1989) alla Cina (7 Visions fugitives, 1995), dal Giappone (Corps Flottants, 1997) al Medio Oriente (Sanaa, passages en noir, 2007) e così via. Alcuni di essi hanno anche una versione installativa, poiché nel frattempo – siamo a metà degli anni ’90 – l’artista ha deciso, senza abbandonare la sua vocazione di autore “monocanale”, di dedicarsi anche alle videoinstallazioni (tra di esse: Tombe, Traverses, Paysage d’hiver), facendosi conoscere nel mondo dell’arte contemporanea da cui – in compagnia di altri videasti storici – era rimasto escluso.

Ma Cahen ha saputo anche confrontarsi con la televisione, realizzando alcuni lavori su committenza e rinnovando a modo suo il rapporto tra i due medium, disattendendo in parte la celebre definizione di Paik «VT is not TV» (il videotape non è la televisione). Nel 1984 realizza insieme a Stéphan Huter e Alain Longuet, le Cartes postales vidéo (450 intervalli di 30 secondi ciascuno per il piccolo schermo, basati sul fermo immagine e sul suo sblocco inaspettato), mentre nel 1990 racconta per immagini, mediante una serie di trovate audiovisive, 16 famose opere incluse nella collezione del Musée d’Art Moderne del Centre Pompidou.

Da poco l’artista è reduce da una grande personale dal titolo Entrevoir, allestita al Musée d’Art Moderne et Contemporaine di Strasburgo che ha richiesto due anni di lavoro e la creazione di otto nuove opere, soprattutto installazioni video. Ma ha anche partecipato a un’importante collettiva presso la Fondation Fernet Branca di Saint Louis, sempre in France, che raccoglieva sette artisti della sua generazione (Ansel, Bey, Dyminski, Latuner, Nussbaum e Roesz), in gran parte pittori, le cui opere sono state suddivise per decenni. Cahen, inoltre, sta progettando un lungometraggio che assembla i backstage dei suoi lavori dalle Cartes Postale in poi, realizzati in giro per il mondo: di questo progetto l’artista francese dice: «Sarà una sorta di saga del mio incontro con l’umanità! Un lavoro lungo e difficile, poiché saranno necessari due o tre anni di tempo, e siccome non lavoro mai solo, ho bisogno di un montatore di alto livello che possa condividere questo grande viaggio insieme a me».

QUANDO IL VIDEO ERA UN’“ART A’ PART”

Conversazione con Robert Cahen

Tu vieni da una formazione musicale, quanto è stato importante per te scoprire l’arte elettronica visiva possedendo una particolare sensibilità e creatività di carattere sonoro?

La musica concreta, a partire dalla sua comparsa, tra il 1969 e il 1971 ha avuto una grande importanza per il mio passaggio dal mondo della musica a quello dell’immagine. E’ l’elettronica che mi ha portato al video. Nel 1968 ancora non sapevo che era possibile intervenire sulle immagini; del resto non conoscevo esattamente come funzionasse la televisione. I bambini non si pongono la questione, non sanno come l’immagine televisiva possa nascere di fronte a loro, su uno schermo. E’ di un’evidenza straordinaria. Non è meraviglioso ricevere immagini che provengono da chissà dove, che si trasformano e si concretizzano davanti ai propri occhi?

Quindi il video è stata una vera e propria rivelazione per te…

Penso di essermi interessato all’immagine elettronica quando ho scoperto la possibilità di manipolarla, donarle una vita particolare, qualcosa che per me è molto vicino alla magia. Durante tutti i miei studi e anche al termine del mio stage nel 1971, quando sono entrato nel Groupe de Recherches Musicales (GRM), mi interrogavo continuamente sulla scelta del tipo di creazione che sarebbe stata migliore per me: avrei dovuto fare della musica? Creare delle immagini? Dipingere? Non riuscivo a capire cosa mi si prospettava. Quando si sta compiendo un gesto non si ha il tempo di riflettere su di esso. Solo oggi ho la possibilità di ripensare a quello che ho fatto.

Quando hai iniziato a utilizzare il videotape nei primi anni ’70 qual era la situazione delle arti elettroniche In Francia?

Sono entrato negli studi dove si realizzavano gli effetti visivi nel dipartimento di ricerche dell’ORTF (diretto da Pierre Schaeffer, l’inventore, il padre della musica concreta) per lavorare sull’immagine elettronica, senza chiedermi se stessi facendo della videoarte o del cinema elettronico. Volevo solo appropriarmi degli strumenti a mia disposizione e mi sono lanciato senza pensarci, semplicemente per il desiderio di esprimermi, più esattamente per creare impressioni, suscitare emozioni. All’epoca, negli anni ’70, il video aveva un carattere molto militante in Francia ma io ero nel dipartimento di ricerche della ORTF e mi sono trovato nel mezzo di un’«art à part». Provenendo dalla provincia alsaziana, avevo appena terminato il servizio di leva ed ero ancora inesperto della vita. Avevo 25 anni e dovevo imparare tutto. Così il 1968 è passato sopra la mia testa.

Cosa hai imparato dal lavoro di elaborazione del suono e dell’immagine?

Al di là del côté estetico, ciò che mi interessava era il côté emozionale, comprendere ciò che – sotto il profilo dell’immagine e del suono – provoca delle emozioni e imparare a restituirle. Con la musica concreta ho scoperto il potere dell’ascolto. Un ascolto particolare, quello dei suoni decontestualizzati dalla loro causalità. Tutto ciò mi ha aperto un nuovo punto di vista sul mondo, allargando considerevolmente il mio campo creativo. La musica concreta porta in sé qualcosa di innovativo, alla stessa maniera in cui la manipolazione dell’immagine elettronica ci conduce in un mondo dove la narrazione può declinarsi secondo altre modalità.

Parallelamente al tuo avvicinamento alla videoarte hai girato alcuni film sperimentali in 16mm, come hai vissuto all’epoca la differenza tra il medium filmico e quello elettronico?

Negli anni 70 c’erano poche videocamere portatili disponibili a Parigi per girare immagini in esterno, nella natura, era dunque necessario filmare in 16mm. Anche per realizzare immagini rallentate usavo una cinepresa a grande velocità (200 immagini al secondo) e queste immagini hanno trovato posto nel mio primo video L’Invitation au voyage. Il passaggio dal medium filmico a quello video è avvenuto in modo molto naturale per me. Non c’era una vera barriera tecnologica, solo la necessità di comprendere il linguaggio per poterlo adattare al proprio progetto. Non era il medium a determinare il mio lavoro, ma il soggetto, il contenuto, Certo, il video consente di vedere subito il risultato delle proprie sperimentazioni, o di reagire come il pittore che può far sviluppare il colore secondo il proprio volere.

Hai frequentato e conoscevi qualche autore del cinema sperimentale francese degli anni ’60 e ’70?

Ho frequentato Jean Paul Fargier, Maria Klonaris, Yann Bauvais, Thierry Kuntzel, ma ho conosciuto anche autori internazionali come Norman McLaren o Artavazd Peleshyan… Sono stato molto amico di Patrick Bokanowski, che è uno dei grandi realizzatori di cinema sperimentale (e di animazione). Durante le nostre discussioni, amichevoli e bizzarre, abbiamo tentato di cercare una soluzione al seguente problema: come filmare un oggetto, una persona mentre precipita in caduta libera? Come riuscire a seguire questo oggetto durante la sua traiettoria e rendere conto del suo pesomettendolo in una sorta di assenza di gravità? Patrick si domandava soprattutto quale attore potesse esprimere ciò che passa nella testa di colui che cade. Io cercavo di trovare la soluzione tecnica alla ripresa di questa caduta (senza sapere ancora che il “vedere” predominava sull’effetto).

Anni dopo, nel 1997, hai realizzato una delle tue prime installazioni video, Tombe,con una serie di oggetti che cadono lentamente nell’acqua…

Ricordo ancora come ho scelto il gran numero di oggetti da immergere in acqua, nella mia casa di Mulhouse, prendendo utensili da cucina, giocattoli di mio figlio Alexandre – tra cui una locomotiva! –, lenzuola del suo piccolo letto, vestiti, giornali, ecc. e riempiendo interi cartoni da portare in una piscina nei dintorni di Strasburgo dove ho realizzato le riprese. Con questa installazione ho ritrovato le mie ossessioni di sempre. Senza alterare tecnicamente il tempo, la densità dell’acqua mi offriva un ralenti naturale, una “ritenuta di energia”. E il tempo prodotto dal ralenti offre a tutti la possibilità di vedere con un occhio nuovo oggetti visti mille volte, ma forse mai davvero osservati.

Insomma la modificazione temporale, soprattutto attraverso il ralenti, è, appunto, uno degli elementi centrali della tua estetica video…Poi vi sono altri concetti ad esso collegati come quelli di “durata” e di “velocità”.

Alcuni miei video come Juste le Temps e Hong Kong Song, rappresentano una risposta a questa problematica. Dei critici illuminati hanno citato queste opere in relazione con il pensiero di Paul Virilio. E’ stato invece con l’ausilio delle immagini in movimento che ho definito la mia posizione critica e filosofica! Le tematiche che affronto durante il mio lavoro sono collegate alla mia storia personale: è Tarkovskij che ha scritto in Scolpire il tempo che tutti portiamo dentro di noi storie degne di diventare oggetti filmici. La scelta del ralenti, per esempio, che attraversa tutta la mia opera, resta uno dei punti primordiali della mia scrittura: tento di raccontare, tra le altre cose, ciò che non si vede, l’invisibile, ma anche, in senso più vasto, di proporre una nuova partizione, una lettura aperta per lo spettatore che si proietta nelle immagini rallentate e che può costruirsi la propria storia. C’è anche la tensione, la suspence di ciò che deve arrivare, contenuta nel ralenti. E poi, come diceva Roland Barthes ne La camera chiara, c’è il «rallentare per aver il tempo infine di vedere».

Che ricordi hai del tuo primo video L’Invitation au voyage? 

Ho tradotto visivamente le riflessioni sul tempo, sul passaggio e sulla trasformazione delle immagini. E’ stata un’avventura, così ho potuto apprendere cosa significasse la produzione di un film, lavorare con una piccola troupe, immergersi nella ricerca. Credo che a quell’epoca per lavorare avessi un approccio molto “schaefferiano”, ovvero non servirmi delle macchine per quello che loro danno, ma utilizzarle, al contrario, per cercare di ricavare da esse qualche altra cosa. Bisognava inizialmente avere delle idee brillanti. Come diceva Schaeffer citando una frase di Picasso: «Trovare subito, cercare in seguito». Considero L’Invitation au voyage come un esperimento, il lavoro di un giovane autore che scopre un nuovo linguaggio al quale applica la propria poetica. Ho messo un sacco di cose, ricordi, emozioni che facevano parte della mia storia personale. Ho scelto foto, quelle delle persone che amavo, di un viaggio in Italia molto importante per me, ho colorizzato queste immagini in bianco e nero con l’aiuto di un apparecchio per effetti speciali detto “universale”, inventato dal settore immagini del Service de la Recherche. Insomma, vi ho messo dentro parte della mia esistenza dell’epoca.

Quando è stato il momento in cui la tecnologia ti ha permesso di realizzare davvero le cose che volevi e nel modo in cui le volevi?

La tecnologia non è mai stata un problema per me e i mezzi tecnici degli anni ’70 mi hanno consentito di trascrivere le impressioni che cercavo di tradurre in immagini nel modo migliore, senza nulla da invidiare alla tecnologia odierna. C’è da dire che, all’inizio dell’analogico, eravamo obbligati a maggiori limitazioni tecniche, mentre negli anni ’90 le tecniche sono divenute più efficaci e hanno facilitato la trasformazione dell’immagine, apportando una qualità maggiore. 

Negli anni ’80 hai realizzato le cartes postales con una committenza televisiva. Pensi che il rapporto tra sperimentazione video e televisione sia ancora possibile o gli spazi in Francia, così come nel resto del mondo, si sono ristretti?

In Francia in quel periodo i canali televisivi e l’INA (Institut National de l’Audiovisuel) sostenevano programmi di ricerca. Tutto ciò permise la produzione di opere sperimentali, qualcosa che oggi è praticamente impossibile. Si segue solo la legge dell’audience e ormai la maggior parte dei programmi televisivi sono format. C’è davvero poca libertà per i creatori. Sarebbe necessario che i canali del servizio pubblico mettessero di nuovo a disposizione i mezzi per la creazione e per la sperimentazione.

  

Hai avuto una formazione cinematografica? Ci racconti del Cahen spettatore?

Mio padre aveva fondato uno dei primi cineclub della Francia, nel 1945 a Mulhouse. Ho visto un sacco di classici. A casa avevamo un proiettore Pathé Baby. Mio fratello proiettava piccoli film muti su un lenzuolo attaccato al muro. Ricordo uno dei primi effetti da lui realizzati in diretta girando la manovella dell’apparecchio di proiezione: un uomo si apprestava a lanciarsi dall’ala di un biplano, ma mio fratello, imitando la sua voce, diceva: «Cazzo, Ho dimenticato il mio paracadute!», così lo faceva rimontare sull’aereo col reverse e ricominciava l’azione daccapo. Questa cosa mi ha segnato fin da bambino e me ne sono servito più tardi, per una lettura “avanti-indietro” dell’immagine.

Quali sono i cineasti e i “videasti” che ti hanno influenzato maggiormente?

Tra i registi sicuramente Tarkovskij, Kurosawa, Marker, Resnais, Hitchcock. Tra i videocreatori figure come Gary Hill, Bill Viola, Woody e Steina Vasulka, Thierry Kunzel, Marcel Odenbach, Joëlle De La Casinère, Zbigniew Rybczynski, Gianni Toti…

Hai mai pensato di realizzare un film totalmente narrativo, magari un lungometraggio, seppure con elementi sperimentali?

Quando guardo i miei video trovo molte narrazioni, ma senza testo. La trama è spesso suggerita e c’è la colonna sonora che funziona da colonna vertebrale narrativa. Ma devo dire che mi esprimo meglio nelle opere di breve durata e ho sempre avuto difficoltà a raccontare storie in maniera tradizionale, con un inizio, uno sviluppo e una fine, inoltre non ho mai imparato a dirigere degli attori, cosa fondamentale per la realizzazione di un lungometraggio a soggetto. Spero comunque che da qui a qualche anno possa mettere in piedi una produzione per finanziare un lungometraggio sperimentale.

Una delle tue caratteristiche è che hai sempre girato i tuoi lavori in giro per il mondo, con un’attenzione per il paesaggio naturale e antropologico. Da cosa nasce questa tua vocazione nomade?

In Juste le temps del 1983 il paesaggio trasformato appariva come uno degli attori di una narrazione embrionale, che costituisce questo video sperimentale montato come un film. I paesaggi attraversati sono come dei libri per me da decifrare e anche come degli spartiti musicali dove l’uomo può ritrovare la sua storia, un luogo di proiezione del sé. Il paesaggio è anche una materia caricata di un potenziale inesauribile per lo sguardo, per la comunicazione e la condivisione delle emozioni.Mi sento un po’ come l’ebreo errante della videoarte, ho cominciato a viaggiare dal 1984 perché mi hanno invitato a presentare i miei lavori all’estero, ma se viaggiare trent’anni fa era una piccola avventura, oggi tutti viaggiano, gli aerei sono pieni di vacanzieri e pensionati Se dovessi parlare della mia attrazione per lo spaesamento e per l’incontro con le altre culture, dovrei confessare che più avanzo con l’età e più tento di rapportarmi alle persone che incrocio nei miei viaggi, soprattutto di restituirne l’immagine più vivida possibile. Credo di essere alla ricerca della vita stessa.

C’è un paese al quale ti senti più legato di un altro?

L’Italia è certamente il paese al quale sono più attaccato, non è il paese dove io voglio filmare per il momento, ma è quello che parla direttamente alla mia anima. La Cina mi ha ammaliato e lo si può vedere in opere come 7 visions fugitives o Canton la Chinoise (co-realizzato con Rob Rombout). Ma cosa dire del Giappone se non che è altrettanto affascinante? Io mi sorprendo sempre della distanza che mi separa dai giapponesi così come dai cinesi. Ho girato molto nel Sudamerica, in Cile per esempio, paese dove avrei voluto stabilirmi. Credo che si ami un paese soprattutto per l’attaccamento provato verso le persone, ed è il caso del Cile appunto.

Qual è oggi il tuo rapporto con il sistema e il mercato dell’arte contemporanea?

Non ho buone relazioni col sistema e ho pochi rapporti col mercato, malgrado abbia una galleria in Lussemburgo, Lucien Schweitzer, che si occupa con cura del mio lavoro. L’eccessivo valore attribuito a certe opere è insopportabile, delirante, stupido, ingiusto. Come dice Raphaël Jodeau, una crosta venduta cara, resta sempre una crosta…