«Il volto più solcato, più scavato che si possa immaginare, un volto dalle rughe millenarie, ma in nessun modo irrigidite perché animate dal tormento più contagioso ed esplosivo. Non mi saziavo di contemplarle. Mai avevo veduto prima un tale accordo tra l’apparire e il dire, tra la fisionomia e la parola». Così comincia il cammeo che Cioran dedicò a Benjamin Fondane, esule romeno a Parigi, nei suoi Esercizi di ammirazione. Dopo aver pubblicato alcuni dei suoi titoli più importanti, curati da Luca Orlandini, da Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (2013) a La coscienza infelice (’16) a In dialogo con Lev Šestov (’17), l’editore Aragno propone ora Falso trattato di estetica Saggio sulla crisi di realtà (pp. XVIII-180, € 20,00), originariamente apparso da Denoël nel 1938. A fronte di una grafica ineccepibile, il libro presenta diversi refusi (come, ad esempio, le date di pubblicazione delle opere citate nelle note a piè di pagina che riportano spesso una cifra in più), nonché una versione dagli esiti altalenanti. Rispetto all’edizione licenziata da Mucchi nel 2014, sempre curata da Orlandini, autore, tra l’altro, del saggio esegetico La vita involontaria (’16), la lezione risulta ampliata con una sezione di Addenda, comprendenti tre recensioni di Benedetto Croce e una manciata di lettere di Cioran, Marcel Raymond e Jules de Gaultier, primo maestro di Fondane e teorico del bovarismo. Fu lo stesso Gaultier a presentare a Fondane nel ’24 Šestov, il cui pensiero influenzerà in maniera decisiva l’autore moldavo che, a causa delle origini ebraiche, scomparve ad Auschwitz nell’ottobre 1944, all’età di 46 anni, dopo essersi rifiutato di tornare in libertà (si erano interessati al suo caso Paulhan, Lupascu e Cioran), per non abbandonare la sorella Line.
Fondane sostiene che «il falso è ontologicamente più ricco ed esistenziale del vero». Quest’asserzione lapidaria si configura come uno dei tanti paradossi del suo pensiero, basato soprattutto su un’idea di poetica che tende a privilegiare il concetto di autenticità, di aderenza alla vita, rispetto alle ragioni derivanti da un’estetica di tipo convenzionale. Non è un caso che si faccia riferimento, partendo da un assunto, riportato in exergo al primo capitolo, tratto dalla Repubblica di Platone («Dobbiamo aggiungere che esiste un antico dissidio tra la filosofia e la poesia»), alla «coscienza vergognosa del poeta» il cui compito è quello di rapportarsi alla realtà in maniera antidogmatica: «Non tutto ciò che ci riesce incomprensibile va necessariamente a detrimento della poesia. Al contrario: la poesia trae grande beneficio dal rimanere incompresa». Prendendo spunto dall’opera dei numi tutelari Baudelaire, con la sua expérience du gouffre, e Rimbaud le voyou, come si intitola uno dei suoi testi fondamentali edito nel 1933, con questo trattato Fondane istituisce una sorta di artaudiana Révolte contre la poésie, dalla quale risultano banditi sia gli accostamenti analogici casuali che Breton farà derivare da Lautréamont (con il conseguente ricorso all’automatismo e il rifiuto di qualsiasi rimaneggiamento della stesura originaria di un testo) sia l’eleganza compassata di un Valéry, accampata intorno al concetto del néant mallarmeano. Chiamando in causa a più riprese il pensiero antropologico di Lévy-Bruhl, Fondane asserisce: «Dai “primitivi” al Rinascimento e da qui fino ai moderni, non è il concetto di realismo a cambiare, ma solo il suo contenuto». E altrove: «Non esiste attività realista che non sia in qualche modo surrealista». Ma il surrealismo va qui depauperato di qualsiasi ingerenza ideologica (si veda, in tal senso, il dissidio manifestato nei confronti delle istanze politiche di Caillois), richiamandosi piuttosto a una concezione «eretica» della poesia, analoga a quella di Daumal e Gilbert-Lecomte, inimitabili fautori della rivista «Le Grand Jeu». Fondane afferma in maniera provocatoria e chiaroveggente (si pensi alla balbuzie tribale dei nostri giorni): «Per stringere la rugosa realtà è più che sufficiente la “necessaria mediocrità”. Non è necessaria la folgorazione della poesia». Il richiamo, ricorrente in tutto il libro, è alla «réalité rugueuse à étreindre» descritta dall’aedo di Charleville in Une saison en enfer.
È logico che, con tali presupposti, Croce considerasse tale ricerca alla stregua di una forma radicale di «protesta contro la poesia cosiddetta metafisica e la poesia pura», avanzando delle riserve sull’impianto dell’opera, visto che «Fondane ignora, e anzi non ha il più lontano sospetto, che l’Estetica nacque appunto col segnare questa profonda differenza tra la teoresi della poesia e quella della scienza e della filosofia». Nonostante fossero in contatto epistolare (Croce è citato a più riprese), i due pensatori parlavano un linguaggio discordante, tanto che il curatore asserisce che «Fondane inizia proprio là dove Croce si ferma». Non bisogna dimenticare oltretutto le critiche crociane all’opera degli stessi Baudelaire e Rimbaud.
È significativo che l’impegno sul versante poetico non si limitasse al solo ambito speculativo, manifestandosi anche in chiave creativa: si considerino l’esperienza poematica dell’Ulysse (1933), il Titanic (’37) e la raccolta Vedute, pubblicata in romeno nel ’30 con l’originario pseudonimo di B. Fundoianu, arricchita da un ritratto effettuato da Brancusi. Riferendosi a Platone, Fondane ricorda come «gli dèi facessero dono dell’intelligenza solo a coloro che erano disposti a perderla».