Sono almeno sette i manifestanti musulmani sciiti uccisi dalle forze di sicurezza nigeriane lunedì scorso ad Abuja durante una manifestazione che richiedeva la liberazione del leader del Movimento islamico nigeriano (Imn), Ibrahim Zakzaki, imprigionato dal 2015 con l’accusa di «omicidio e attività politica clandestina».

Scontri che potrebbero riproporsi lunedì prossimo quando Zakzaki dovrà presentarsi davanti alla Corte Suprema per una richiesta di scarcerazione a causa delle sue «gravi condizioni di salute». Una giustizia «arbitraria», secondo gli esponenti dell’Imn, dopo che nel 2016 la Corte federale aveva giudicato la sua detenzione «illegale» ordinandone l’immediata liberazione. Provvedimento mai attuato dalla Corte Suprema di Abuja.
Secondo le testimonianze di un reporter dell’agenzia Afp la manifestazione «era pacifica, poi i poliziotti hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni e a caricare i manifestanti che hanno risposto lanciando molotov e bruciando alcune automobili».

«Stavamo manifestando senza alcuna violenza, ma quando siamo arrivati all’altezza della sede del ministero degli Esteri, i poliziotti hanno cominciato a sparare in aria e sulla folla», ha dichiarato Abdullahi Muhammed Bello, uno degli esponenti dell’Imn.

Violenze settarie che si vanno ad aggiungere a quelle che stanno colpendo le province centrali tra i pastori musulmani fulani e i contadini cristiani – con oltre 10 mila vittime – o ai continui attentati di Boko Haram nel Nord del Paese. Dati ormai per sconfitti e decimati, i jihadisti di Boko Haram sono tornati all’offensiva in Nigeria.

Diviso in due fazioni – una storica guidata da Abubakar Shekau e l’altra denominata Stato islamico della provincia dell’Africa occidentale (Iswap) con a capo Abu Musab Al Barnawi – il gruppo radicale ha moltiplicato gli assalti alle basi militari dell’esercito ed è riuscito a creare una sorta di entità statuale lungo le rive del lago Ciad, colmando le lacune di servizi fornite dallo Stato centrale e ottenendo, in alcune aree, il sostegno della popolazione civile.

Secondo un recente report del National Security Tracker, organismo indipendente che monitora le violenze per cause politiche, economiche o sociali, le perdite militari sono progressivamente aumentate dallo scorso luglio 2018 e Boko Haram, indebolito nel 2016, si è rafforzato grazie anche «al rientro dal Medioriente di numerosi combattenti dell’Isis in tutta l’area del Sahel».

Dati che contrastano con le recenti dichiarazioni del presidente Muhammadu Buhari. Nella sobria cerimonia di investitura di fine maggio – dopo le elezioni di febbraio contestate dalle opposizioni – Buhari aveva dichiarato che ormai «Boko Haram non controlla più alcun territorio, anche se i nostri sforzi devono continuare per la conclusione definitiva del conflitto».

Violenze e scontri che, al contrario, dimostrano quanto la fine del conflitto sia ancora molto lontana e che hanno messo in evidenza le difficoltà sia dell’esercito nigeriano, mal equipaggiato, sia della Forza multinazionale congiunta (Mnjtf) formata da Nigeria, Camerun, Ciad, Niger e Benin. Se nel 2016 la Mnjtf aveva iniziato una controffensiva ben coordinata, tanto che riuscì a riconquistare buona parte del territorio controllato da Boko Haram, oggi si è disgregata e sta dimostrando, secondo la stampa nigeriana, «i limiti della cooperazione tra Stati, in particolare in materia di intelligence e di contrasto dei jihadisti nei Paesi vicini».