Si presenta come un album-strenna, per formato, dimensioni e ricchezza iconografica, ma è un vero libro, la più ampia sintesi e insieme riapertura di quella che è stata a Trieste l’esperienza di distruzione dei manicomi di Franco Basaglia e dei suoi stretti collaboratori (Franca Ongaro Basaglia, Franco Rotelli, Peppe Dell’Acqua, Mario Reali…). Si tratta del volume L’istituzione inventata / Almanacco Trieste 1971-2010 curato ora da Franco Rotelli per la collana (che prende il nome dal numero di una decisiva legge) «180. Archivio critico della salute mentale» diretta da Peppe Dell’Acqua per le edizioni Alpha Beta di Merano. La collana, già giustamente apprezzata e premiata, ha pubblicato o riedito in versione ampliata testi fondamentali del gruppo basagliano, nonché volumi con DVD dedicati a opere che documentano quella vicenda, e trova ora nel libro di Rotelli (non solo per le sue dimensioni extra-collana che subito ne segnalano l’importanza) qualcosa che va oltre un “bilancio”. Il titolo stesso, che interloquisce con il classico basagliano del 1968 L’istituzione negata, ci conferma quanto da anni ben oltre il Friuli Venezia Giulia è evidente: che Rotelli è tra i pochi a ragionare in termini progettuali di politica culturale, a rilanciare e non a subire il rapporto tra politica e intervento sociale. Lo spostamento dal concetto di istituzione negata a quello di inventata potrebbe apparire una tardiva sottolineatura “riformistica” ma è invece la miglior evidenziazione di come la vicenda basagliana abbia saputo rimescolare e superare i giochi al ribasso della storia politica italiana: dapprima nel rapporto con il ministro socialista Luigi Mariotti (che fu tra quanti all’epoca del centrosinistra, insieme al ministro del lavoro Brodolini, al combattente dei diritti civili Fortuna e qualcun altro, diedero un senso all’impegno di riforme forti); poi, per l’esperienza propriamente triestina, si intercettò l’impegno realmente cristiano della più avanzata DC morotea, di cui Michele Zanetti, che volle Basaglia a Trieste, è in assoluto il più luminoso esempio; e in parallelo si potè contare su uno psichiatra convintamente comunista come Mario Tommasini. Che oggi i basagliani Rotelli e Reali siano rispettivamente consigliere regionale del PD e consigliere comunale di SEL, è segno di come anche oggi le sigle politiche vadano forzate verso una capacità di rispondere a esigenze reali. Non si tratta del gatto di cui non importa il colore di Deng Xiao-ping ma di qualcosa di non trasformistico e sostanziale.

Il volume di Rotelli si apre appunto, a mo’ di eletta prefazione, con un testo di Antonin Artaud, e dunque in un rapporto con un’esperienza imprescindibile della follia. E subito ci viene in mente che Artaud fu attore e complice di Dreyer in La passion de Jeanne d’Arc e di come poi il rapporto con la follia, oltre che Artaud, toccò lo stesso Dreyer (ricoverato quasi per beffa in una Clinica Jeanne d’Arc) e più tardi sua figlia: ma negli anni in cui dovette subire questi trattamenti, Dreyer creò l’abissale follia di Vampyr, un film sul cancro, il segreto capolavoro “clinico” Due esseri, il film contro tutte le inquisizioni Dies irae, il film più centrale di tutti Ordet e infine Gertrud che rimane l’atto estetico supremo del Novecento. Non stiamo tirando troppo il volume di Rotelli su sentieri filmici estranei perché il libro già documenta ad abundantiam la sensibilità per il più acuto distornamento (con quello debordiano) del cinema. Si pensi che l’Ospedale Psichiatrico di Trieste realizzò nel 1977 la prima personale italiana di Frederick Wiseman. Si pensi che coinvolse nella documentazione fotografica Raymond Depardon, Gianni Berengo Gardin… E ci piace che Mario Reali, in uno degli scritti più belli in volume, richiami la rivoluzione non del Potemkin di Ejzenstein (come può fare un Greenaway qualsiasi) ma, sfida molto più difficile, dello Sweet Movie di Makavejev. E tra le molte scritte che sui muri dell’ospedale triestino dichiararono slogan sovversivi spicca il richiamo al film lattuadiano di un «Venga a prendere un elettroshock da noi». Inoltre, il luogo oggi trasformato a bar-ristorante autogestito nel comprensorio ex-psichiatrico triestino di San Giovanni, si chiama Il posto delle fragole, e qui ci soccorre la memoria che a metà anni ’60, prima che dal cinema si dedicasse alla politica che gli permise di accogliere Basaglia, Michele Zanetti fu tra gli acuti commentatori cattolici di Bergman (con Luciano Zantedeschi) al Cineforum Triestino: erano cinefili che poi magari si irritavano (sbagliando) per certe riscoperte critiche francesi che fraintendevano per snobistiche, ma quando a qualcosa come Bergman erano interessati lo rendevano vera lezione di vita, non solo estetica ma morale.

Una cosa da segnalare (oltre il volume) come pertinente è il fatto che Franco Basaglia, nella sua giovanile formazione neurologica, pubblicò nel 1954 con Giampietro Dalla Barba per la Clinica delle malattie nervose di Padova un aureo saggio in nostro possesso, A proposito della risposta “maschera” nel test di Rorschach, che ben si collega alle macchie di Rorschach e alla clinica psichiatrica di Eutopa ’51 del Rossellini che arriva poi al coevo (rispetto al testo basagliano) La paura e al conclusivo ma perduto Le psychodrame in un percorso che, come rispetto a Simone Weil e alla storia delle filosofie e delle religioni, anticipa di almeno un decennio le vicende sociali cui appartiene la rivoluzione basagliana. Che fu, diciamolo, l’unica non perdente del Novecento, proprio perché tuttora “permanente” (come testimoniano le lotte di Dell’Acqua col rinato Marco Cavallo), mai illudentesi di vincere in un solo paese (come provano nel volume i molteplici prolungamenti internazionali). Una quindicina d’anni dopo Europa ’51 è nel maggior film degli anni ’60 dopo Gertrud, di un regista il cui nome è racchiuso in quello di Roberto Rossellini (Robert Rossen), Lilith, che Rorschach e follia si ripropongono in tutta la loro irrisolvibilità sociale.

La vicenda di Marco Cavallo, ricreazione artistica (del cugino Vittorio Basaglia e dell’ancora attivo Giuliano Scabia) insieme a tutta la comunità dei “matti” di un cavallo reale che fu recluso-operaio tra i reclusi del manicomio, diventerà forse l’unico epos postessantottesco di cui si abbia splendida evidenza.

Di queste e di molte altre vicende artistiche provenienti dall’azione basagliana reca traccia anche fotografica il volume di Rotelli. Ma le due foto più emblematicamente commoventi rimangono quella di Basaglia chino con amoroso pudore su una ricoverata, e quella di Basaglia sotto un aereo in partenza con tutta la comunità, immagine di volo aereo verso orizzonti infiniti che è il miglior seguito del finale aeroportuale di Amore mio di Matarazzo. Il quale, prima di mettere in scena la pazza rigeneratrice di Torna!, fu già autore del maggior film italiano sulla reclusione psichiatrica, addirittura in epoca fascista, L’albergo degli assenti, titolo che rinnega meglio di qualsiasi altro l’apologia della detenzione.

Va inoltre segnalato che il volume di Rotelli evidenzia le molteplici imprese economiche post-proudhoniane sorte dall’esperienza che ha ripreso da Basaglia: cooperative come La Collina che oggi reagiscono alle crisi di altre (quale Bonawentura); che sostengono case editrici come “e” diretta da Piero Del Giudice; che forse potrebbero capire meglio delle inerti istituzioni pubbliche “follie” come quella di Diego de Henriquez e del suo Museo di guerra contro la guerra; che appartengono alla costellazione letteraria triestina, quella delle “follie” di Svevo, Saba, Timmel, persino del raggelato Quarantotti Gambini… più che in qualche museo delle cere in cui si vorrebbe racchiuderle. Ci sembra che il libro-summa di Rotelli possa preludere a un rilancio complessivo della programmazione culturale non solo in regione, a cominciare dall’offerta nei giardini dell’ex-comprensorio, che può sorpassare il mainstream nell’avanguardia.