Per una veglia funebre come dio comanda non c’è bisogno di esagerare in manicaretti: caffè sempre caldo, «naturalmente in tazze piccole», e biscotti. Ma le fette di cuscus con uova fritte, quelle solo all’alba e per chi ha passato tutta la notte a consolare i dolenti. Ancor più del caffè, però, è fondamentale la cachaca, l’acquavite brasiliana: se quella non scorre a volontà, la «mancanza di considerazione per lo scomparso» è imperdonabile.

PER CHI SI VOLESSE cimentare con un piatto capace d’infiammare i sensi, niente vale una Moqueca di granchi, con cipolla a spiovere. In campana però: «Non avendo abilità meglio non mettercisi». Se invece l’ospite è di rango e se la tira, se storce il naso delicato di fronte alla cucina popolare, allora meglio la Tartaruga brasata, pietanza adorata non solo dagli snob dei quartieri alti ma anche dagli orixas, le divinità africane che si manifestano nelle cerimonie del candomblé, versione baiana del culto che ad Haiti chiamano voodoo, a Cuba santeria, a Rio de Janeiro macumba.
Ricette e consigli sono di pugno della sopraffina cuoca Floripedes Paiva, per gli intimi e per i rispettosi dona Flor, protagonista del capolavoro di Jorge Amado Dona Flor e i suoi due mariti, pubblicato nel 1966, diventato 10 anni dopo un film destinato a detenere il record di incassi in Brasile per 46 anni, e poi anche una serie messicana in 65 episodi in onda sino al giugno scorso. Ogni sezione del romanzo è introdotta da una ricetta, adeguata al tono delle pagine che seguiranno. Espediente classico e quasi ovvio dal momento che la protagonista, timida e schiva in superficie quanto focosa e sensuale sotto la scorza, è titolare di una pregiata scuola di cucina baiana: «Sapore & Arte».

MA LA GRANDEZZA di Dona Flor, allo stesso tempo il più noto e il più sottovalutato tra i romanzi del maestro di Bahia, sta tutta nella capacità di mascherare con leggerezza degna di un signore della capoeira, la lotta con gambe e piedi praticata dagli schiavi e stilizzatasi col tempo in una specie di danza, la profondità dei temi che affronta. La cucina piccante e speziata di cui Flor è sovrana rappresenta insieme il riflesso della sua nascosta e torrida sensualità e il cuore ardente della Bahia popolare.
Dopo gli anni del realismo socialista, agli esordi letterari, e poi dell’epica sanguinosa delle guerre del cacao, che conosceva bene essendoci cresciuto in mezzo, Jorge Amado si era stancato di raccontare le sofferenze del popolo di Bahia, dei senza terra e senza potere e senza soldi. Voleva rovesciare il quadro ed esaltarne invece la grandezza, la sensualità, la gioia, la capacità di ridere nonostante tutto.

VOLEVA DIMOSTRARE che il cuore, i muscoli e la testa di Bahia stanno nei quartieri colorati e fatiscenti della gente comune, non nelle ville dei potenti esangui e nelle accademie. Mirava a scrivere il grande romanzo del popolo meticcio di San Salvador di Bahia e questo è Dona Flor più di qualsiasi altro suo libro: un’enciclopedia della cultura popolare baiana. La cucina locale disegna la mappa, indica le strade in cui addentrarsi.
Le ricette che campeggiano all’inizio dell’ultima sezione del romanzo non sono destinate agli umani ma agli orixas: a Ogun che ama caprone e galline, a Xango che mangia tartaruga e agnello, al malizioso Exu, versione baiana del Baron Samedi haitiano però meno sinistro e più beffardo, che al cibo preferisce l’acquavite. Nell’ultima parte del libro entreranno direttamente in campo, si affronteranno incrociando le vicende di Flor, le riporteranno indietro dal regno delle ombre Vadinho, marito mascalzone ma adorato e a letto insuperabile, morto di stravizi.

COME DEPUTATO comunista Amado, negli anni ’50, aveva proposto la legge, poi approvata, che ha reso legali i culti africani e sincretisti a Bahia. Era «Obà Arolu», uno dei dodici ministri che presiedono alle cerimonie del terreiro, carica onorifica tra le più alte del candomblè. Quando gli chiedevano se ci credesse davvero, sorrideva enigmatico e non rispondeva. Ma che credesse o meno nel potere degli orixas in fondo è secondario. Di certo credeva nella forza di quella cultura sincretista portata nel nuovo continente dagli schiavi e poi intrecciata nell’unico melting pot realmente relizzatosi. A Bahia, scriveva Amado, ci sono solo mulatti chiari o scuri. Non alludeva al colore della pelle ma al fatto che gli incroci fossero conclamati o tenuti segreti.

IN «DONA FLOR» i piatti forti locali sono segnali stradali che indicano dove dirigersi. Ma la stessa trama si svolge in buona parte nelle cucine: il regno di Flor. A differenza delle altre protagoniste dei romanzi di Amado, di Gabriela, Teresa e Tieta, Flor non è una guerriera. Non è assertiva come Tieta, l’ex prostituta diventata tenutaria e imprenditrice di successo. Non combatte fieramente come Teresa. Non è audace e sessualmente libera come Gabriela. Flor non è una ribelle: vive «in cucina». Per molti versi sarebbe perfetta per il dottor Teodoro, il secondo marito pignolo, ordinatissimo, fedele, affidabile. Tragicamente noioso. Se non fosse per quel nucleo nascosto di sensualità e romanticismo che sapeva risvegliare lo sciagurato Vadinho, infedelissimo ma fedele col cuore, gran viveur dotato di un «entusiasmo esemplare che metteva in qualsiasi cosa facesse, tranne lavorare».

Sensualità e romanticismo, letto e amore, per Amado sono forze anarchiche che disgregano l’ordine ipocrita, smantellano la disciplina gelida imposta dall’alto, stracciano le vesti decorose del perbenismo. Sono gli impulsi vitali che muovono le anche nel Samba, le gambe nella capoeira, il ventre nel candomblè e carezzano il gusto con la cucina baiana. Incarnano l’anima africana che colonizza dall’interno la cultura dei colonizzatori e la affranca dalla sua cupezza. L’Africa, diceva lo scrittore, «è la Forza che ha salvato il Brasile dalla tristezza del fado».
Amado, negli ultimi decenni del secolo scorso, è stato molto amato dalle femministe europee e molto criticato da quelle del suo Paese. I suoi personaggi femminili sono assai più complessi e drammatici di quanto la sua prosa divertita lasci intendere a prima vista, e Flor è peralcuni versi la più complessa di tutte. Perché la cuoca talentuosa e bellissima, tanto pudica quanto scatenata se risvegliata a dovere, è la sua unica protagonista che non cerchi e non aspiri a una liberazione.

ANCHE GABRIELA, altra cuoca capace di sfornare manicaretti speziati come il suo stesso corpo, voleva una casa e un maschio da accudire. Ma era una scelta libera e consapevole, accompagnata da una libertà sessuale sfrontata, inaudita nel Brasile degli anni ’50. Flor non sceglie niente. È divisa e tra aspirazioni convenzionali e pulsioni selvagge. Si può immaginare facilmente cosa avrebbero cucinato, con ingredienti di questo genere, altri scrittori, Georges Simenon per esempio. Ma Jorge Amado era deciso a dimostrare che con ogni sapore, pure con la miseria dei quartieri popolari di Salvador de Bahia, anche col dramma insolubile di dona Flor, si possono realizzare piatti capaci di regalare gioia e vitalità. Sfida ardua, di quelle che obbligano a rivolgersi alla magia e necessitano di un aiuto da parte degli stessi orixas. Ma alla fine vinta trionfalmente.

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Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962.