Per il mondo greco la mania era prima di tutto una forza vitale: come la furia degli elementi naturali, sconvolge l’ordine delle cose, sovverte uno stato di quiete; ma maniacale si dice anche di una sorta di concentrazione estrema, di una pratica di conoscenza che non conosce ostacoli. Maniaco è chi, nei fatti, arriva a quel fondo di sé in cui poi si spalanca – per eccesso di visione e ossessione di esattezza – la follia.
I protagonisti dei sei racconti di Guadalupe Nettel contenuti in Petali (La Nuova Frontiera, traduzione di Federica Niola, pp. 128, e 15,00) sono a tutti gli effetti dei maniaci. Sanno, cioè, che nel dettaglio sta acquattato un mondo intero, e che è soltanto fissando l’infinitesimo che l’infinito si palesa. Non lo sanno per saggezza ma per istinto; la mania è l’animale che, da dentro, li governa. Non è data possibilità di sottrarsi a quella forza naturale da cui sono comandati: si può solo coincidere del tutto con la bestia.

L’arroganza della norma
Un collezionista olfattivo che insegue con il naso la sua «margherita» nei gabinetti delle donne; un fotografo specializzato nell’immortalare palpebre imperfette prima che vengano corrette; un uomo che non sa resistere al richiamo dell’orto botanico da quando capisce che il cactus è l’essere vivente, tra tutti, a lui più simile; una ragazza che va su un’isola deserta con il proposito ostinato di trovare la Vera solitudine. Sono solo alcuni dei protagonisti di questi racconti, che arrivano in Italia un anno dopo Bestiario sentimentale, invertendo la sequenza delle uscite in lingua originale e confermando Guadalupe Nettel tra i migliori scrittori dell’America latina.
«La vita di ogni annusatore merita un momento di pienezza come quello che vissi quella volta nei servizi per signore del Mazarín. Non saprei dire se mi capitò di godere così tanto per il marmo discreto dei mobili e del pavimento, per il soffitto alto che consentiva la libera circolazione degli odori o per la cabina spaziosa che ispezionai in modo minuzioso». La mania funziona, dicono questi racconti, perché è un attivatore sensoriale. Il millimetro, l’alone, è il pulsante che fa saltare in aria tutto: l’estasi che ne consegue è l’esperienza della meravigliosa, insensata e potente insensatezza delle cose.

La perfezione è in fondo l’unico nemico dei personaggi di Guadalupe Nettel, anche perché altro non è che statistica, norma, normalità arrogante spacciata per scientifica. Il protagonista di «Ptosi», il racconto che apre la raccolta, fotografa i pazienti prima e dopo l’intervento di chirurgia estetica alle loro palpebre per così dire difettose: scatta due serie di fotografie, che stanno a metà strada tra la necessità (e anche la tutela) di dar conto di un lavoro fornendo un referto fotografico, e l’ossessione vera e propria di chi compie quello scatto. La prospettiva del protagonista è tacitamente rovesciata rispetto a quella del padre chirurgo: l’intervento in fondo rovina l’irresistibile imperfezione che rende unico ogni umano.

Se la mania, l’estasi e l’ossessione sono forze interne, ciò che di più proprio hanno i personaggi dell’autrice messicana, la scomodità ne è la conseguenza materiale. La scomodità è l’incapacità – o l’impossibilità, si potrebbe anche dire – di adattarsi a una forma predisposta: la sedia della norma è sempre troppo stretta o troppo larga per chi non ha, per modello, altri che se stesso. Stabilire la norma, fare della norma istituzione, è probabilmente il primo atto di ogni forma di potere.
Eliminare ciò che dalla norma diverge, ciò che fa la differenza, è il passo successivo, oltre che l’implicito obiettivo di ogni presa del potere. E quello che fa la letteratura, da sempre, non è nient’altro che compiere attentati all’ordine costituito della frase, che è anche dire al discorso fornito da chi detiene il potere sul linguaggio – propaganda o markenting che sia. Da questo punto di vista, dunque, l’estetica della scomodità di cui Nettel si fa portavoce è una dichiarazione di poetica e un’esortazione: stiamo scomodi, diffidiamo dell’estetica del comfort che impigrisce e normalizza.

Una solitudine rovesciata
In quanto ossessionato dallo parole, chi scrive sta scomodo nelle frasi altrui: indugia ore sopra gli aggettivi, concepisce punti e virgole come questioni imprescindibili, non si dà pace fino a che non ha decostruito il periodare con cui si articola la voce ufficiale del suo tempo. Ai sei maniaci di Petali ne va dunque aggiunto un settimo, lo scrittore. Come tutti gli altri, chi scrive si concentra sulle minuzie, sui millimetri di ciascuna lettera dell’alfabeto. E così come avviene nel caso del fotografo delle palpebre o del feticista degli odori o delle creature vegetali, è dalla singola lettera dell’alfabeto che, in una composizione di parole e di frasi, si sprigiona il mistero delle cose, la meraviglia dell’insensatezza del creato.

È dall’estrema solitudine del maniaco – dal rovescio doloroso della sua unicità – che deriva il punto di comunione con gli altri essere umani, un paradosso solo in apparenza: questa, tra le tante, l’intuizione più felice dei racconti di Guadalupe Nettel. Se sulla carta parrebbe impossibile immedesimarsi in personaggi con disposizioni così specifiche e private, così estreme nella loro unicità, alla lettura succede il contrario. Nessuno sfugge alla mania perché, sembra dire questo libro, essa è costitutiva della specie. E chi legge, immedesimandosi nei protagonisti, si sente dunque preso dentro il loro stesso meccanismo maniacale. Da qui un senso di scomodità, che permette a questi racconti di toccare il punto più profondo della natura umana.