Si è chiuso ieri a Roma il primo G7 Energia dell’era Tump, che resterà alla storia per essere il primo a terminare senza una dichiarazione congiunta dei rappresentanti delle sette economie più energivore del mondo.

Il dato è indicativo proprio in considerazione del valore semi rituale e farisaico di queste dichiarazioni congiunte finali, che spesso si limitano a ricordare un comune impegno delle sette potenze a difendere la stabilità del mercato degli idrocarburi. Il ministro ospite, titolare del dicastero dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, in conferenza stampa, ha dovuto specificare come «con l’amministrazione Usa c’è stato un dibattito molto costruttivo e nessun tipo di frizione». Ma ha dovuto ammettere che i problemi sono venuti proprio da Washington. «Non è stato possibile firmare una dichiarazione congiunta su tutti i punti» – ha detto – perché «abbiamo preso atto che la nuova amministrazione degli Stati Uniti si trova in un processo di revisione di molte sue politiche»,incluso della politica energetica «in relazione al clima e dell’accordo di Parigi».

Calenda ha ribadito poi che con l’esclusione degli Usa, è stato confermato da parte degli altri membri del G7 e dall’Unione Europea «l’impegno a implementare l’accordo di Parigi sul clima, che rimane forte e deciso». È chiaro a questo punto che, al di là delle carinerie con la ministra dell’Ambiente Segolène Royal che in virtù della «grande cordialità» dell’ex governatore del Texas, nuovo segretario all’Energia Rick Perry, ha sperato fino all’ultimo in una ricomposizione, gli Usa mostrano in modo deciso di voler le mani libere su tutta la partita del petrolio e del gas.

Cosa significa avere le mani libere sul climate change si era già capito quando, alla fine di marzo, l’amministrazione Trump ha rimesso in campo la costosa pipeline Keystone, contestatissima dagli ambientalisti e infine bloccata da Obama nel 2015, che dovrà portare i prodotti delle sabbie bituminose della regione ormai devastata dell’Alberta, in Canada, fino al Nebraska e poi da lì alle raffinerie del Golfo del Messico. Lo slogan «America first» si traduce anche in una difesa del piccoli e medi produttori dello shale oil, il greggio sporco e dall’estrazione costosa e dannosissima per l’ambiente attraverso le tecniche di fracking che era diventato non più remunerativo negli ultimi due anni a causa dell’abbassamento dei prezzi del barile.

Ieri, dopo i bombardamenti Usa sulla Siria e l’inaugurazione di una nuova politica di potenza in Medioriente, i prezzi del barile sono in rimonta mentre negli Usa sempre più trivelle di scisto vengono riattivate, certifica la società Baker Hughes. Goldman Sachs prevede che nel prossimo biennio potrebbero tornare a produrre 1 milione di barili al giorno, rischiando di mettere in seria difficoltà compagnie europee come Eni e Total.

Oggi lo stesso Calenda vedrà in un incontro bilaterale il nuovo segretario Usa all’Energia Rick Perry. E nel frattempo riconferma la «bontà» dei gasdotti Tap e Eastmed. Mentre Eni annuncia di voler raddoppiare la produzione off shore a Ravenna entro il 2020. In barba alle ragioni di comunità locali e ambientalisti.