Le partizioni scolastiche ci hanno abituati a considerare in blocco gli artisti facenti capo ai rispettivi movimenti, e lo stesso Novecento, dove tutto si complica, non è esente da questo vizio conoscitivo. Solo gli amatori possono sentire l’avventurosità dei distinguo, quanto sia inebriante spaccare il capello in quattro per individuare, all’interno di una poetica data, gli elementi di contrasto o di impurità. Sono questi elementi, infatti, che realizzano l’unicità di un artista, lo promuovono storicamente, cioè saldamente, quantunque rimanga in ombra, a volte, a causa delle mode correnti. La radicalità idealistica del metodo venturiano (Lionello Venturi) invitava a selezionare brutalmente nei corpora di ogni singolo impressionista in base all’aderenza, più o meno, a certe caratteristiche di omogeneità a lui proprie, definite «gusto», ma noi sappiamo che è proprio la miscela di quei più e di quei meno a fissare i termini concreti della personalità. Viene in mente l’ironia di Félix Fénéon quando ai critici del pointillisme, che denunciavano l’indistinguibilità dell’ultimo Pissarro da un Seurat o da un Signac perché il metodo scientifico del «miscuglio ottico» a questo aveva condotto, rispondeva che il matematico Rood, a cui i pointillistes si rifacevano, non era certo in grado di tradurre i suoi principi teorici in un dipinto di qualche significanza.
«Non bisogna confondere la calligrafia con lo stile», scriveva anche Fénéon, il che può essere un viatico alla presentazione della lucente mostra su Henri Manguin (Manguin, l’exaltation de la couleur) a cura di Véronique Serrano (ottimo il catalogo Silvana Editoriale), mostra in corso, sino alla fine di ottobre, al Musée Bonnard di Le Cannet. Anche per i Fauves, soprattutto negli anni della breve parabola come gruppo (il movimento, nato col Novecento, si può dire esaurito già verso il 1908, quando Braque diventa cubista), si pone, stimolante, il problema dell’indistinguibilità. Succede quando un’urgenza storica – in questo caso la necessità di liberarsi degli ultimi residui dell’Ottocento, ancora presenti nell’opera dei maestri post-impressionisti, compreso il ‘novecentesco’ Cézanne – si impone con tale determinazione da spingere alla ricerca di una maniera che funzioni, al tempo stesso, da proclama. Per i Fauves il colore urlante e staccato, l’á-plat, il gusto fin esibizionistico della sintesi divengono fattori così militanti da impedire qualsivoglia distrazione – non si può dire lo stesso, o non nella stessa misura, del Cubismo, che, seppure più dirompente, sarà il frutto di due singole personalità in catafratto dialogo, Picasso e Braque (pur ‘indistinguibili’ al culmine della fase analitica, i dipinti ermetici del 1911-’12), il cui linguaggio viene via via elaborato da artisti i più vari e su registri i più vari.
Stilisticamente parlando, i cubisti non faranno gruppo quanto i Fauves, la cui tensione, fin spasmodica, non può che concentrarsi in un pugno di anni. Dopo, i maggiori cosiddetti (perché questa superiorità è stabilita in base a un criterio di adesione alle traenze storiche, che può essere anche in chiave di rifiuto polemico, com’è il caso di Derain) prendono una strada sempre più «personale», mentre i minori restano fedeli all’incandescente imprinting di primo Novecento, ingegnandosi a modularlo e contaminarlo durante lunghi anni di ritiro borghese. Così mentre il professor Matisse mette a punto via via, sempre più concettualizzando, il sistema di equilibri decorativi che sappiamo; e Raoul Dufy, dopo la parentesi paracubista, si inventa una pittura mozartiana a linea volante e ghirigori spiritosi; e Braque si inoltra nella ricostruzione razionale del mondo che fu il Cubismo; e Vlaminck si isola, dando un tono sempre più patetico e angoscioso ai suoi barbarismi; e Derain si mette a recalcitrare contro l’Avanguardia, fino a un «ritorno all’ordine» tutto suo, fantasmatico, quasi in pasta di vetro… mentre tutti questi maggiori, insomma, si fanno riconoscere, ce n’è degli altri, pittori magari grandi se giudicati in assoluto, che restano al palo delle loro fedeltà, al punto da suscitare nella critica una simpatia sempre al limite della degnazione: furono nominati i fauvettes, le piccole belve.
I ragazzi di Moreau
Tra questi – Louis Valtat, Charles Camoin, Jean Puy, Othon Friesz – va annoverato, forse il migliore, Henri Manguin (quanto a ‘fedeltà’, anche Albert Marquet dovrebbe qui annoverarsi, ma è di qualità troppo alta, e troppo amico di Matisse…). La mostra di Manguin, confermando il pregiudizio evoluzionistico di cui si è detto, ne presenta la produzione solo fino al 1912, quando egli aveva trentotto anni e ancora, davanti, trentasette da vivere, in modo operosissimo. Questa periodizzazione ne mostra la fase ardente, quando era «indistinguibile» da Matisse, con cui, insieme a Marquet, Puy, Camoin, aveva condiviso gli insegnamenti dell’ottimo e liberale didatta Gustave Moreau, quando figurava nella raccolta d’avanguardia di Gertrude Stein, ma altrettanto interesse avrebbe suscitato seguire Manguin nei lunghi anni di pittura per la pittura, senza ingombri teorici o verità da affermare, vissuti in gran parte, approdo dai frequenti viaggi, nel suo ritiro di Saint Tropez – che assomigliava ancora alla Saint Tropez dei pescatori scoperta da Signac –, dove aveva acquistato, lui facoltoso, la celebre dimora chiamata L’Oustalet.
Succede con i fauvettes che si venga a scoprire una certa precedenza sullo stesso Matisse nello sperimentare gli effetti del puro croma: già nel 1894, dunque più di dieci anni prima dello scandalo delle «belve» al Salon d’Automne, Valtat picchietta sulla tela i colori come usciti dal tubetto, mostrando di legarsi alla tradizione puntinista ma anche di volerne minare, dall’interno, la rigidità sistematica. È proprio dai pensamenti condotti su Seurat, e ancor più su Signac, che si potrà giungere infatti alla poetica del colore autonomo, parlante in sé, propugnata da Matisse e compagni: Valtat ci arriva prima degli altri, ma anche Manguin, ancora dentro l’Ottocento, con un occhio più rivolto alla scuola di Gauguin, campisce largamente a pezze cromatiche in un capolavoro in piccolo come è Le Banc, rue Boursault, che rappresenta il giardino del vasto e celebre atelier dell’artista, nel quartiere Batignolles, dove si riunivano animatamente i ragazzi di Moreau.
Nei primi sei-sette anni del Novecento Manguin arriverà a gareggiare con Matisse non solo in qualità ma anche nella foga derivante dalla scoperta di una libertà insospettata. Il loro campo di prova è, soprattutto, l’uso antinaturalistico del colore: mentre spoglia le sue modelle con trasporto carnale, Manguin mette a punto quella tavolozza, tutta sua, di viola, lacche di garanza, cadmio, cobalto che, così riferisce il biografo dei Fauves Jean-Paul Crespelle, faceva esclamare al glaciale Vallotton, davanti alle sue tele, «vengo a riscaldarmi». Un quadro del 1904 come Devant la fênetre, rue Boursault, con le ombre viola della stupenda nuda sul controluce giallo, va letto insieme al fatidico Ritratto con la riga verde, di un anno dopo, firmato Matisse. La comune adesione a una poetica, l’indistinguibilità, si realizza nel commercio immediato delle idee, e quello di Batignolles diventa facilmente un atelier collettivo, come evoca in mostra il confronto tra un’opera attribuita a Matisse, dove Marquet dipinge una modella appunto nello studio di Manguin, e un’altra opera, di Marquet, che ritrae Matisse nello stesso studio, sulla stessa modella (manca il quadro corrispondente di Manguin, conservato in una collezione svizzera). È il 1905, tutti e tre si divertono ‘a fare’ i puntinisti, ma in realtà liberano i colori in un irregolare e fantasioso sfarfallio. Idem nella suprema Baigneuse di Manguin, di un anno dopo, dove si può apprezzare che la totale risoluzione coloristica preservi, soda, la figura di impronta classica, come non succede, giusta un’osservazione di Apollinaire, in alcuni altri quadri, dove Manguin deve ricorrere alla linea di contorno, ma non felicemente come in Matisse, il quale ne farà un elemento chiave del suo programma decorativo.
Non il Cézanne strutturale
Persistenze, recuperi, nuove suggestioni, tutto sottilmente dosato, rendono interessante seguire Manguin nel suo farsi artista particolare, quando le strade dei Fauves cominciano a dividersi. La scoperta del Midi, della sua fresca luce pagana, lo rende sensibile a un Cézanne diverso da quello ‘sperimentale’ che era di esempio a Matisse e soprattutto ai cubisti: i problemi di Manguin non sono di ordine strutturale, egli cerca piuttosto una penetrazione atmosferica che non ha dunque bisogno dei «passaggi» cézanniani, della natura scomposta in geometrie solide, ma sì del trasporto panico, pur sempre di radice impressionista, con cui il maestro di Aix aveva stabilito un nuovo rapporto ottico con il mondo fenomenico. In certe tarde nature morte, degli anni trenta-quaranta, che a Le Cannet non è dato vedere, il quid cézanniano è persino più ottocentesco, e porta a esiti curiosamente vicini alle opere del gruppo conservatore, signorilmente austero, della Bande Noire, di cui Dunoyer de Segonzac fu il miglior rappresentante (e non è forse un caso che nella monografia dedicata a Manguin da Pierre Cabanne, 1964, figuri proprio un omaggio di Segonzac).
Bonnard e le ombre colorate
In realtà, la geografia artistica del Meridione di Francia – Matisse a Nizza; il vegliardo e artritico Renoir a Cagnes; Bonnard, appunto, a Le Cannet; Signac a Saint Tropez –, che implica anche una parca frequentazione sociale fra i pittori, lontano, entro il possibile, dalle barricate del nuovo secolo, trova sin da subito, diremmo, una traduzione espressiva nelle tele di Manguin, dove indovini di continuo i richiami di un dialogo incessante e mai pago. Il rapporto con Bonnard, che possiamo verificare attraverso i confronti con le opere del maestro conservate al Museo di Le Cannet, merita un’attenzione speciale, perché sicuramente le marine di Manguin, il suo azzurro luminoso intravisto fra gli alberi ondeggianti a ombre colorate, furono di appoggio al capofila dei Nabis nel suo ripensamento dell’impressionismo, nel superare il formalismo fin-de-siécle. Non si può dire altrettanto del contrario: Manguin, pur ricercato, sarà sempre un pittore troppo ‘di prima’, giusti i suoi inizi fauves, per lasciarsi irretire nel formicolante e cerebrale mondo di Bonnard, che tale resta anche nella seconda stagione.
P.S. Ho appena finito di scrivere e squilla il telefono. È un mio amico, giovane storico dell’arte. Ci mettiamo a parlare di Manguin. Lo aspetto al varco: infatti, «è un bel pittore, un po’ ripetitivo…». Protesto che non c’è niente di ripetitivo, che un quadro è un quadro è un quadro. Lui si corregge: «È un bel pittore, ma bello come è bella la Costa Azzurra». Così va un po’ meglio. Manguin, bello come la Costa Azzurra.