Ex rettore della Federico II, ex presidente della Crui e poi ministro dell’Università con il Conte 2, Gaetano Manfredi è il candidato sindaco di Napoli in una coalizione che va dai partiti di centro tradizionali a quelli che fanno capo alla maggioranza del presidente della regione Vincenzo De Luca, fino a Sinistra italiana ed espressioni della società civile come Mille colori per Napoli. Soprattutto, è al centro del laboratorio in cui si sta sperimentando l’accordo tra Pd e 5S, fallito in altre città.

Alternativamente le danno l’etichetta di candidato dem o di grillino. Come gestirà il confronto tra alleati e con De Luca?
Ai cittadini interessa il progetto, le cose da fare per la città. Il rapporto con i partiti e le forze civiche che mi sostengono si costruisce sul programma e sui valori. Io sono il garante, il mio ruolo è assicurare la pari dignità a tutte le forze politiche che mi appoggiano, fare sintesi tra varie sensibilità che, però, si inquadrano tutte in una chiara area di centrosinistra.

È un candidato civico, anche il competitor a destra si definisce civico. Le identità politiche sono un peso?
Maurizio Valenzi, importante personalità del Pci, è stato eletto sindaco di Napoli nel 1975. Un grande sindaco in un momento molto difficile della città, forse paragonabile al periodo che stiamo vivendo adesso. Ha avviato un processo di cambiamenti e l’ha fatto con una forte caratterizzazione politica ma anche coinvolgendo tutte le energie della città. È questo lo spirito che voglio avere, mobiliare le forze positive che si riconoscono nella politica ma anche in un’azione civica. Da questa sintesi si costruisce un’identità, sui valori e sulle cose da fare.

I debiti del comune superano i 4 miliardi. Lei ha proposto un Patto per Napoli che prevede l’impegno dello Stato.
Il deficit si è creato per più motivi. Dentro, ad esempio, ci sono i debiti di tre commissari di governo: quello del terremoto del 1980, della crisi rifiuti e del commissario per il dissesto idrogeologico. Non è giusto che ricadano sulle casse comunali. Poi ci sono stati i tagli lineari: a partire dalla crisi del 2008 si è deciso di ridurre i trasferimenti agli enti locali dando ai comuni una maggiore capacità impositiva. Tutto il Centro Sud, che ha una situazione economica più critica e una minore capacità di riscossione, è andato in difficoltà. La scarsa riscossione delle tasse, poi, è in parte legata alla povertà dei territori e non si risolve semplicemente con il rigore. I comuni sono stati gli enti che hanno sopportato i tagli maggiori, una politica assolutamente sbagliata perché sono quelli che erogano i servizi di cittadinanza garantiti dalla costituzione, come l’istruzione. È giusto che ci sia un intervento centrale che rimetta in ordine il quadro.

Ci vogliono anche investimenti.
Per garantire l’equilibrio finanziario ci vuole una città che soffra di meno, è il lavoro che produce gettito. Serve un piano di investimenti e la capacità amministrativa di utilizzarli. Bisogna migliorare la macchina comunale con le assunzioni, far crescere l’economia e, così, implementare i servizi. L’Italia senza il Sud è poca cosa, soprattutto un’Italia che vuole crescere. Napoli rappresenta molto per il paese, spero che se ne siano accorti oppure se ne accorgeranno.

Veniamo da un lungo periodo in cui l’unica vocazione che si immaginava per la città era il terziario. Non si è fatto nulla per fermare la deindustrializzazione.
Dobbiamo immaginare una Napoli policentrica che guarda alla sua area metropolitana: più di 3 milioni di abitanti non possono vivere di terziario. Serve l’industria del nuovo millennio, a basso impatto ma alto valore aggiunto, digitale ed ecosostenibile. Significa posti di lavoro qualificati mentre il terziario è il settore con i salti più bassi. Abbiamo una buona università, centri di ricerca e tanti giovani: vengono formati e vanno via perché manca il ciclo industriale. Dobbiamo utilizzare la leva del capitale umano come fattore di attrazione, con politiche pubbliche fatte bene possiamo creare opportunità di lavoro. Così è successo nel polo di San Giovanni a Teduccio dove Accenture ha assunto più di 2mila persone. Anche l’industria alimentare è un settore dove possiamo giocare una partita importante.

Il turismo è sembrato la soluzione alla crisi economica della città ma la monocultura del turismo provoca danni.
È importante ma neppure possiamo vivere di turismo. Possiamo però avere una nostra dimensione. Siamo la città del Grand tour, ma già all’epoca era legato alla musica, al teatro, alle bellezze naturali. Dobbiamo declinarlo non in forma consumistica ma esperienziale. Non bisogna musealizzare la città: senza i napoletani nel centro storico si perde la nostra stessa identità. È un processo che va guidato altrimenti si moltiplicano i b&b che espellono gli abitanti.

Si è consumato uno scontro tra il governatore De Luca e Antonio Scurati, che ha dato le dimissione dalla direzione del Ravello Festival. Che rapporto ci deve essere tra ente pubblico e istituzione culturale?
Tutte le espressioni legittime devono avere spazio. Il rapporto tra chi finanzia e chi sviluppa i processi culturali è un tema su cui si dibatte da anni. Credo che un mix di finanziamenti pubblico-privato consenta di dare spazio a tutte le sensibilità. Se dipende tutto dal pubblico ci sarà sempre una forma di condizionamento.

A ogni elezione si agita lo spettro dei centri sociali con il centrosinistra allineato al centrodestra.
Si tratta di realtà, anche differenti tra loro, che hanno dato un grande contributo durante la pandemia. Le forme di autogestione e autorganizzazione sono un valore, un pezzo dell’espressione della nostra società, sopratutto a Napoli. Il tema è quando ci sono delle azioni di per sé illegali o forme di intolleranza. Bisogna vedere cosa fanno nei quartieri, molti sono un esempio positivo di impegno.