Per il grande pubblico di appassionati di storia, Manfredi di Svevia vive nell’ombra del troppo celebre padre, Federico II Hohenstaufen, al quale nei secoli sono state dedicate biografie e dibattiti a 360 gradi. Peccato, perché la figura del suo migliore erede, Manfredi, è di straordinario interesse, come mostra la bella biografia di Paolo Grillo, Manfredi di Svevia. Erede dell’imperatore nemico del papa e prigioniero del suo mito (Salerno, pp. 290, euro 22).

DOPO LA MORTE di Federico II nel 1250, in Sicilia, sotto la sovranità formale del nipote Corradino, l’eredità federiciana venne raccolta dal reggente Manfredi, figlio naturale dell’imperatore. Questi, ben conscio di non poter aspirare alla corona imperiale, finì per imporsi quale autentico erede della politica paterna non solo nel regno meridionale, bensì in tutta Italia. Intervenne quindi con forza nelle questioni dell’Italia comunale, collegandosi strettamente ad alcune città di tradizione ghibellina come Pisa, Genova e Siena, e impostando una politica a largo raggio, tanto lungimirante da includere un disegno di egemonia mediterranea.

FU PER QUESTO SCOMUNICATO da papa Alessandro IV, ma l’azione pontificia non lo fermò: padrone dei porti pugliesi e alleato dei principati greci sopravvissuti alla conquista latina di Costantinopoli (aveva difatti sposato Elena, la figlia del «despota» greco d’Epiro), contribuì in modo determinante, insieme con Genova sua alleata, alla caduta di quell’impero latino di Costantinopoli che era stato essenzialmente una creazione veneziana in seguito alla cosiddetta «quarta crociata».
Inoltre, si alleò con re Giacomo I d’Aragona, al cui figlio Pietro III dette in sposa la figlia Costanza: in questo modo, egli tesseva le fila di un’alleanza tra Aragona, Genova, Pisa e Sicilia che avrebbe condotto l’intero bacino mediterraneo occidentale a divenire un dominio ghibellino.

NEL 1260, con il suo appoggio, i senesi e i ghibellini fiorentini esuli batterono a Montaperti in Toscana l’esercito di Firenze, espressione di un governo «popolano» di banchieri e di imprenditori appoggiati dal papa. A Firenze rientrarono gli aristocratici ghibellini, che con le loro persecuzioni determinarono una battuta d’arresto nello sviluppo della potenza bancaria della città. Sconfitta la rivale, Siena restava, per il momento, il primo centro finanziario dell’Italia comunale; e grazie ai capitali senesi Manfredi poteva continuare a svolgere la sua politica di penetrazione nella penisola nonostante l’opposizione di alcuni capi ghibellini (come Ezzelino da Romano, signore di varie città venete, che fu però eliminato nel 1259) i quali erano gelosi della sua potenza e gli rimproveravano il comportamento sleale nei confronti di Corradino di Svevia.

Fu tuttavia proprio la grande fortuna della politica di Manfredi tra il 1258 e il 1261 a porre le premesse per il tramonto della sua buona stella. Egli era riuscito perfino ad attrarre dalla sua una buona parte dell’aristocrazia romana, facendosi eleggere alla guida, col titolo di «senatore», del comune di Roma, e minacciando pertanto il pontefice nella sua stessa capitale. Fu a questo punto che papa Urbano IV (1261-64), avvalendosi di un diritto acquisito fino dall’XI secolo (e abolito soltanto nel XVIII), in forza del quale il re di Sicilia era vassallo della Santa Sede, lo proclamò deposto dal trono che affidò invece al fratello di Luigi IX re di Francia, l’intraprendente e spregiudicato Carlo I d’Angiò.

CON LA MORTE di Manfredi nella battaglia di Benevento, nel 1266, e l’esecuzione a Napoli dello sventurato Corradino, che aveva cercato di riconquistare il suo regno ma era stato battuto e fatto prigioniero nella battaglia di Tagliacozzo, nel 1268, si chiudeva definitivamente l’avventura sveva in Italia e in Sicilia. Non quella del mito, però, nonostante la storiografia, almeno inizialmente, abbia preferito rimuoverne la memoria, aderendo completamente alla narrazione di parte guelfa e riproponendone gli stereotipi.
Il «rinascimento» storiografico intorno a Manfredi trova dunque nel libro di Grillo il suo apice: si tratta di una «biografia politica», come la definisce l’autore, il quale giustamente sottolinea l’impossibilità di fare altrimenti. All’«uomo» Manfredi si dedica l’ultimo capitolo, cercando di dare un senso alle poche notizie circa i gusti e l’indole personali. Per il resto, il libro si costruisce intorno a quadri eloquenti già dai titoli: Il Bastardo, Il Principe, Il Mecenate, e così via, tracciando allo stesso tempo un prospetto esaustivo della sua azione e del contesto in un momento convulso della storia della penisola italica, europea, mediterranea.