E sia, i Måneskin non hanno inventato nulla tanto sono zeppe di citazioni dall’abbecedario rock le loro canzoni. Ma è davvero un difetto? È un problema che loro stessi non si pongono: hanno vent’anni – come cantano in un loro pezzo recente incluso nel nuovo album Teatro d’ira – Vol. 1 in uscita il 19 marzo – e hanno passato fanciullezza e adolescenza ad ascoltare gli album delle superstar – o cariatidi vedete voi – del rock. Quando cinque anni fa hanno deciso di provare a suonare per davvero, hanno optato per strumenti analogici. Niente computer, niente autotune. Ed è stata gavetta, vera, nei pub, nei locali e su via del Corso a Roma. «Lì – spiegano – è stato il vero banco di prova, perché cantavamo e suonavamo davanti a un pubblico di passaggio, non amici od altro». X Factor è stata l’occasione giusta, Manuel Agnelli la guida attenta e il trionfo sanremese la consacrazione mainstream.

CHE SI PORTA DIETRO qualche piccola polemica, per la decisione di giungere a un compromesso con l’organizzazione dell’Eurofestival a cui parteciperanno il prossimo 19 maggio. «Non ci ha fatto piacere cambiare il testo di Zitti e buoni per partecipare all’Eurovision, ma c’è una questione di buon senso: abbiamo pensato che era meglio cancellare una parolaccia, pur di fare una cosa così importante. Siamo ribelli ma non scemi, e c’è un regolamento: sarebbe stato sciocco farsi eliminare dal contest». Propensione rock – certo – ma realismo tipico dei millenial. Intanto c’è un nuovo disco, otto canzoni ma è un progetto in fieri che si completerà con altro materiale più avanti.
Pezzi solidi, sound compatto e un’ispirazione che lascia pensare a una band che ha tutti i numeri per durare nel tempo. Scritto interamente dai Måneskin, Teatro d’ira è stato registrato in presa diretta al Mulino Recording Studio di Acquapendente – dove si è svolto anche un minilive di presentazione durante il quale dimostrano la loro crescita professionale, in particolare Damiano, graffio vocale ma anche una non scontata attitudine interpretativa che potrà mettere a frutto in futuro. Un minilive che vorrebbe essere antipasto di un tour di11 date in partenza dal 14 dicembre nei palazzetti dello sport, molte già sold out anche se il Covid è purtroppo un’incognita. Un disco suonato, crudo, contemporaneo. Il teatro del titolo è la metafora in contrasto con l’ira del titolo, ira simbolica che sembra più che altro una rivalsa verso chi non pensava ce l’avrebbero fatta.

UN ESEMPIO, spiegano è In nome del padre, drumming incalzante, basso pulsante: «Qui ci riferiamo a chi dice che non siamo rock, ma anche a quelli che non credevano in noi, che ci dicevano che dovevamo fare altro. È un testo contro i limiti e le barriere che hanno provato a metterci davanti». Il sesso è raccontato in I wanna be your slave, traccia in inglese e testo provocatorio: «Parliamo di sesso declinato in varie accezioni, nessuno dovrebbe dire cosa fare e cosa non fare. La sessualità ha tante varianti e non va chiusa in scompartimenti». La sorpresa è Coraline, una bella ballata dove esce anche la matrice mediterranea e melodica dei Måneskin. «Il titolo non è riferito al film, la scelta del nome è puramente fonetica, la storia è reale ma raccontata in forma di favola».

E A CHI – MALIZIOSAMENTE – li accusa di essere una brava band di cover rock, risponde la bassista Victoria De Angelis: «Non so se siamo una rock band, di certo non vogliamo incasellarci in una determinata categoria. Non ci sono molti gruppi che suonano con strumenti analogici, ma non ci interessa: facciamo la nostra musica, che vuol dire essere noi stessi». «È vero non siamo i Led Zeppelin – incalza Damian che azzarda provocatoriamente – ma siamo all’inizio, lasciateci il tempo di arrivarci».