Le Vaquejadas sono un rodeo che si pratica nella parte sudorientale del Brasile. Due uomini a cavallo corrono insieme a un toro stringendolo e tirandolo per la coda con l’intento di farlo cadere entro una zona delimitata. Iremar è un vaqueiro che lavora dietro le quinte di questo spettacolo insieme a Galega, camionista, mandriana, gelosa dei suoi attrezzi e madre single di Cacà, ragazzina sfacciata che aiuta la compagnia, composta anche da un altro paio di persone.

Questa specie di famiglia allargata senza relazioni che vive in un camion tra animali, escrementi, docce improvvisate, riviste porno, e che sogna altri mondi senza con ciò disprezzare il proprio, è la protagonista di Boi neon del regista brasiliano Gabriel Mascaro, noto soprattutto per i suoi documentari e, di recente, per Ventos de Agosto, film a soggetto premiato con una menzione a Locarno nel 2014. Selezionato nel concorso di Orizzonti, Boi neon non si limita a descrivere con taglio documentarista la vita di mandriani che condividono il loro destino con cavalli e tori. E forse, al di là delle stesse dichiarazioni e intenzioni del regista, che ha anche sceneggiato il film, non racconta nemmeno il Brasile contemporaneo o meglio non lo spiega né da un punto di vista antropologico né tanto meno da uno sociologico. Per chi si trovasse in sala, solo la lingua portoghese potrebbe aiutarlo a indovinare il paese d’origine di una storia che all’elemento naturale ne aggiunge un altro, in modo per certi versi sorprendente, quello dell’opera artificiale. Infatti, Iremar e, in seconda battuta Galega, nel tempo libero disegna e realizza dei costumi che poi la sua complice indossa per delle vere e proprie performance.

Vita naturale, dunque, e manufatto, si mescolano continuamente in questa vicenda dove non manca il sesso, altro elemento che entra in gioco con una doppia valenza: la necessità fisica dei corpi, da un lato; l’esibizione estetica puramente visiva, come se si trattasse anche in questo caso di una performance, dall’altro. Quasi il manifesto del film di Mascaro, perso tra sguardo reale e ricerca estetica (o estetizzante?).
Non c’è il Brasile in particolare, e non c’è la politica, intesa come ricerca collettiva di un mondo da condividere e nel quale mettersi in condivisione. Esistono la natura e gli oggetti, il bisogno da soddisfare qui e ora e l’opera in grado di resistere al decadimento del presente. Il sogno di Iremar, quello di diventare un sarto, sembra però simile a quello di tanti individui che pensano alla propria esistenza senza una relazione autentica con l’altro, a un contatto col mondo. In nessun momento si ha l’impressione che realmente la sua creatività sia pensata per gli altri. E senza un mondo, non può esservi opera.