Sono centinaia ogni giorno i sudafricani che sostano fuori del cancello del Mediclinic Heart Hospital di Pretoria dove Nelson Mandela si trova dall’8 giugno scorso per un’infezione polmonare. Le condizioni dell’anziano leader si sono aggravate negli ultimi giorni, portando il mondo intero a prendere coscienza della mortalità dell’ultimo degli eroi del XX secolo.

Gente comune, scolaresche, gruppi di preghiera, compagni di prigionia, lavoratori che tra un turno e l’altro passano a salutare Tata Madiba portando fiori, biglietti d’auguri o accendendo candele e cantando inni antiapartheid in onore del venerato leader.
Per molti versi, si ha la sensazione di un Sudafrica un po’ perso – anche se in parte rassegnato e consapevole – di fronte all’eventualità che nel precipitare degli eventi potrebbe svegliarsi orfano di chi, sfidando la pena di morte, mise in ginocchio un sistema pianificato di diseguaglianza politico-economica e sociale sferrando con il coraggio e la mitezza combattiva di cui solo un saggio è capace un attacco di massa, mobilitando le coscienze e l’azione dei sudafricani e infiammando l’animo di milioni in tutto il mondo dal chiuso di una cella la cui profondità misurava la sua altezza.

[do action=”quote” autore=”La cameriera di un pub di Cape Town”]«Per Madiba non è mai il momento»[/do]

«Per Madiba non è mai il momento», ci ha detto una ragazza che lavora come cameriera in un pub del centro di Cape Town, quando che le abbiamo chiesto se è tempo di «lasciarlo andare», come vuole una tradizione di alcune etnie sudafricane. A sentire altri invece, l’ora sarebbe ormai giunta per l’anziano leader. Per altri ancora, magari ce la fa ad arrivare al 18 luglio prossimo, giorno del suo novantacinquesimo compleanno. C’è la speranza, l’obiettività, la rassegnazione e c’è, in fondo, la paura probabilmente dettata dagli attuali scenari politico-economici e sociali. Sentimenti contrastanti che si sgranano con intensità diversa se a parlare è un nero o un bianco. Se cioè a provarli sono quelle generazioni o figli di generazioni a cui il regime dell’apartheid – deriva estrema e incancrenimento di secoli di dominazione inglese e boera – ha negato dignità, libertà e tant’altro, o la minoranza bianca di quegli anni, e i suoi discendenti, che da spettatori hanno assistito e beneficiato di quei soprusi legalizzati e per cui Mandela ha solo rappresentato l’uomo della riconciliazione e la leggenda a cui tutto il mondo rende tributi. È quasi un tabù per loro parlarne, e per ragioni figlie non solo di quegli anni ma soprattutto di quelli del post-apartheid.

Due decenni dopo la fine dell’apartheid, il processo di sradicamento avviato da Mandela di quel sistema strutturato di ineguaglianza socio-economica si è dopo gli anni della sua presidenza arenato. E il Sudafrica oggi fa ancora i conti con il retaggio di quelle politiche. Forti ineguaglianze sociali, alti tassi di disoccupazione – arrivata a picchi del 25-26% – povertà, livelli di istruzione e scuole sotto gli standard fanno della Rainbow Nation una delle società più ineguali al mondo in cui la minoranza bianca occupa ancora i posti chiavi dell’economia. Evidenza concreta dell’incapacità dei successori di Mandela di raccogliere il suo testimone, uno svuotamento della leadership che non attuando quelle riforme di cui l’economia e la società necessitano ha alimentato timori di tensioni finora sopite grazie all’opera di collante di Madiba.

Questo Sudafrica, con queste problematiche, si prepara ad accogliere domani Obama. Il quale non è ancora ben chiaro se farà visita a Mandela ma visiterà sicuramente la prigione di Robben Island dove Madiba ha trascorso 18 dei suoi 27 anni di prigionia. A voler essere cinici, quanto basterà più che a schermare il suo viaggio africano a sostenere invece il suo tentativo di convincere che anche la sua amministrazione, al pari di quelle passate, intende portare avanti politiche di sviluppo in Africa. Cosa che al momento gli viene contestato di aver accantonato.