Sono passati quarant’anni dalla pubblicazione di Orientalism, il saggio di Edward W. Said che denunciava la natura mistificatoria e strumentale della visione dell’Oriente così come era stata elaborata in Occidente nel corso dei secoli. Ancora oggi, il termine «orientalismo» racchiude il pregiudizio eurocentrico (meglio sarebbe dire occidentalcentrico) che afferma la «naturale» superiorità dell’Occidente nei confronti di un Oriente dai confini geografici e culturali mantenuti indefiniti: concetto astratto, come si sa, tendente a uniformare realtà e culture profondamente diverse, inglobandole in un contenitore indifferenziato che viene modificato di volta in volta in base alle necessità del momento.

Le forze in gioco

L’Oriente è stato caratterizzato da una serie di tratti generali che in definizioni sintetiche etichettavano fenomeni complessi, appiattendoli su formule riduttive: dispotismo asiatico, misticismo indiano, fanatismo islamico, e così via. Le culture di matrice europea hanno così affermato la propria fisionomia, in contrapposizione a quella di civiltà ritenute aprioristicamente inferiori, dando per scontata la superiorità dei costumi e dei valori occidentali, ritenuti universali e quindi esportabili.

Mentre si promuovevano e si giustificavano le politiche imperialcolonialiste promosse a danno dei paesi asiatici, si spacciava come «palese» la incapacità delle popolazioni orientali di dotarsi autonomamente di governi democratici, liberi e rispettosi dei diritti civili. Il pregiudizio eurocentrico verso l’Oriente si accentuò tra il 1700 e il 1850, radicandosi nella nostra cultura così profondamente da condizionare ancora oggi la nostra visione del mondo e le relazioni tra i popoli e le nazioni.

Le tesi di Said hanno dato l’avvio a una rivisitazione della storia che ha portato a importanti ricerche condotte da studiosi di tutto il mondo: un esempio è The Eastern Origins of Western Civilization (Cambridge University Press 2004) di John M. Hobson, che descrive da un’angolazione del tutto inedita il grande contributo dell’Oriente all’ascesa dell’Occidente; un altro saggio importante è Le Vie della Seta. Una nuova storia del mondo (Mondadori 2017) di Peter Frankopan che demolisce la concezione ottocentesca, dal sapore romantico ma non corrispondente alla realtà, di una o più vie sin dall’antichità sviluppatesi come moderne autostrade che collegavano la capitale dell’impero cinese, Xi’an, a Roma. Uno studio che ha riassegnato alle singole espressioni culturali dell’immenso continente eurasiatico un ruolo fondamentale nello sviluppo delle civiltà del mondo antico.

È lungo questa linea di pensiero, che va letto Dall’Asia al mondo Un’altra visione del XX secolo (traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 712, euro36,00) il nuovo libro di Pierre Grosser, storico e specialista di relazioni internazionali dell’École libre des sciences politiques di Parigi e direttore dell’Institut diplomatiques du ministère des Affaires étrangères dal 2001 al 2009. Di grande respiro, questo saggio offre al lettore occidentale una lettura inedita della storia del XX secolo, rivisitata e reinterpretata da un’angolazione diversa da quella cui ci ha abituato la nostra tradizione storiografica, fondata sulla centralità dell’Europa e, per quando riguarda tempi più recenti, degli Stati Uniti.

Proponendo un racconto storico più libero da condizionamenti e pregiudizi, Grosser dà maggior peso a tutte le possibili connessioni e contaminazioni tra le forze in gioco, spostando il teatro degli eventi dal palcoscenico europeo a quello globale e provocando il lettore perché riconsideri gli avvenimenti cruciali della storia moderna da un’angolazione che aiuti a superare i pregiudizi concettuali e ideologici ancora in voga. Con semplicità e chiarezza, Grosser imbastisce le sue tesi basandosi non solo sui documenti e sugli studi europei e americani, ma anche, e forse soprattutto, su contributi di storici asiatici: cinesi, giapponesi e coreani.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Asia orientale divenne uno dei teatri principali nel quale si misurarono le potenze mondiali. Dall’Asia al mondo prende l’avvio dalla Grande Guerra, i cui prodromi sarebbero da ricercare per Grosser anche nel conflitto russo-giapponese del 1904-1905: la disfatta russa ebbe infatti un notevole peso nello sconvolgere gli equilibri europei dell’epoca, rivelandosi decisiva per la ridefinizione delle alleanze successive e del ruolo del Giappone in Asia orientale e sullo scacchiere internazionale.

I negoziati che condussero al trattato di Versailles nel giugno del 1919 furono fortemente condizionati dalla «minaccia bolscevica» da una parte, e dall’altra dal ruolo assunto dal Giappone – entrato nel novero delle grandi potenze (anche se con uno status di secondo piano rispetto agli altri partner) grazie alla sua partecipazione al primo conflitto mondiale – e dalla Cina, che a Versailles ebbe una parte del tutto marginale, ma che dal novembre 1920 divenne comunque membro permanente del Consiglio della Società delle Nazioni. La delicata questione dello Shandong divenne centrale nella composizione dei nuovi equilibri tra le maggiori potenze mondiali e ha pesato non poco sulla mancata ratifica del trattato stesso da parte degli Stati Uniti.

Secondo Grosser anche le origini della seconda guerra mondiale vanno ricercate in Asia, e più precisamente nella Manciuria della fine degli anni Venti. Le questioni asiatiche, assai complesse nei primi decenni del Novecento, hanno avuto un ruolo tutt’altro che irrilevante nella definizione del patto germanico-sovietico del 1939. Nell’estate del 1941 l’Unione Sovietica fece in modo che non si stabilisse una linea di continuità tra la seconda guerra sino-giapponese (1937-1945) e la guerra da poco scoppiata in Europa. Si dovette attendere il dicembre del 1941, con Pearl Harbor, perché il conflitto si mondializzasse davvero.

Ruoli da rivalutare
Gli scontri in Asia non furono, dunque, un corollario dei conflitti in Occidente, come una certa storiografia tende a mostrare; né va sottovalutato il ruolo delle scelte politiche attuate in Asia nell’ambito della guerra fredda o dei vari conflitti regionali in Corea, Vietnam, Cambogia, Afghanistan. L’obiettivo dichiarato di Grosser non è scrivere una storia globale, o «rovesciare il tavolo» della storia tradizionale accusata, spesso a ragione, di occidentalcentrismo, né di pretendere che l’Asia abbia avuto un ruolo primario nel forgiare gli assetti geopolitici del mondo attuale. Il suo intento si limita a mostrare che le vicende in Asia hanno pesato sulla storia delle relazioni internazionali del XX secolo in modo molto più determinante di quanto si è soliti pensare, un passaggio importante per comprendere meglio il mondo del nostro secolo.